Razzismo rosso (E se i veri razzisti fossero “compagni” e democratici?)
La storia che vi voglio
raccontare inizia mezzo secolo fa, eravamo a Trieste negli anni ’60.
Siamo in una scuola elementare cittadina, in una classe terza. Un
maestro, Claudio N. sta dettando un brano agli alunni. Il brano
riguardava gli antichi Egizi e i loro metodi di scrittura e di calcolo. A
un certo punto uno degli alunni, forse un po’ più impacciato degli
altri – si tratta di uno dei più piccoli della classe, è di novembre, e
ancora non ha compiuto nove anni, e siamo in un’età in cui certe
differenze ancora pesano – alza la mano chiedendogli di ripetere le
ultime frasi, perché è rimasto un po’ indietro.
E’ vero che Claudio N. (che
l’anima sua non abbia pace!) non era certo un docente esemplare, che
spesso lo si poteva trovare in una bettola antistante la scuola, che
aveva sempre le guance e il naso vistosamente arrossati e talvolta
l’alito alquanto vinoso, ma un uomo fatto, un insegnante per di più,
prendersela a quel modo con un bambino di nemmeno nove anni!
Il motivo di tanto rancore in
realtà c’era anche se difficile da confessare ad alta voce, quel bambino
aveva il torto di portare un cognome chiaramente “terrone”: Calabrese.
Claudio N. non era solo un
razzista ma – per fortuna, dovrei dire – era anche un imbecille. Mia
madre andò a parlare con lui, e quando seppe che avevo origini per metà
toscane, si sciolse, diventò molto più malleabile di quanto fosse stato
fin allora, e probabilmente si era reso conto di averla fatta troppo
sporca.
Claudio N. era un cultore di
folclore locale, ha acquisito una certa fama cittadina con una raccolta
di canzoni dialettali (da osteria, prevalentemente), era un
“triestinista puro”, di quelli che – e ce ne sono ancora – non hanno
finito di maledire l’infausto giorno del 3 novembre 1918, quando la
prima nave italiana, il cacciatorpediniere “Audace” attraccò nel porto
di Trieste, quelli che “L’Austria era un Paese ordinato” eccetera,
eccetera, a cui quel po’ di immigrazione che c’è stata nel capoluogo
giuliano dall’interno dell’Italia, soprattutto dal sud, dava e dà
terribilmente fastidio.
Un atteggiamento, nei fatti,
tremendamente miope. Mio padre, un uomo di intemerata onestà, grande
bontà, grandissimo lavoratore, mi ha insegnato tante cose con il suo
esempio. Nei nove anni dell’occupazione militare angloamericana rischiò
quasi quotidianamente la pelle per manifestare per l’italianità di
Trieste, e negli scontri con gli slavo-comunisti non ci si limitava ai
pestaggi, spesso spuntavano coltelli e talvolta armi da fuoco. Nel
novembre 1953 la polizia angloamericana sparò ad altezza d’uomo sulla
folla facendo quattro morti, fra cui un bambino. Diceva di aver vissuto
tutte le esperienze della vita, tranne esserci nato, per considerarsi
cittadino di questa città, compreso il carcere fatto ovviamente per
politica. Non era molto alto, poco più di 1,60, ma fatto di idealismo,
amor di patria, orgoglio, coraggio dalla punta dei piedi alla cima dei
capelli.
Un giorno, mi fece osservare
che se non ci fossimo stati noi “taliani” come dicono qui (con il
sottinteso che loro, i triestini “doc” italiani non siano), gli italiani
di Trieste, compresi quelli che non vogliono riconoscersi come tali,
sarebbero svaniti da un pezzo sotto la pressione slava. Io non so se
oggi lo consolerebbe o sarebbe motivo di ulteriore amarezza sapere che
tutti noi, italiani e sloveni, tutti noi europei, a Trieste, in Italia,
in Europa, rischiamo di essere spazzati via dalla valanga
dell’immigrazione terzomondista.
Detesto dirlo, ricorda un po’
la favola del brutto anatroccolo, ma mezzo secolo dopo, quel bambino di
nove anni maltrattato è diventato un insegnante, uno scrittore che ha
all’attivo la pubblicazione di diversi libri, e certo non ha aspettato
che fosse passato un così lungo arco di vita per mettersi in luce come
militante di estrema destra e, in questa liberissima democrazia in cui
pensare controcorrente è un reato, accumulare anche qualche noia
giudiziaria. Ma la cosa interessante è forse che, io non potevo certo
saperlo allora né in seguito, ma avevo un appuntamento dopo quasi una
vita con il prosieguo di questa storia della mia infanzia.
Mezzo secolo – quasi una vita,
appunto – più tardi, mi sono trovato nella scuola dove insegno, un
ragazzo di colore, un etiope ovviamente adottato, con lo stesso cognome
di quell’antico e non rimpianto maestro. Non mi ci è voluto molto per
appurare che si tratta del “nipote” dello stesso grande uomo e grande
pedagogo. In generale vedere intorno quelle facce scure non mi piace, mi
ricorda troppo che ci stanno un po’ alla volta soppiantando, che ci
stanno facendo sparire come popolo, ma questo ragazzo nero mi procurò un
senso di ilarità. Io sono molto scettico sull’esistenza del
soprannaturale, del post-mortem, ma mi piacerebbe tanto pensare che da
qualche parte l’anima di quell’uomo allergico ai “terroni” “si goda” lo
spettacolo del suo triestinissimo cognome portato avanti da un nero, che
le sue ossa si rivoltino nella tomba tutte le volte che con esso
qualcuno chiama questa persona di colore.
Ma la storia non finisce qui
perché sfortunatamente mi ritrovo come collega “la madre” di questo
ragazzo. (Scusatemi, ma devo insistere con le virgolette: la filiazione
NON E’ un rapporto giuridico, o è un rapporto DI SANGUE o non è nulla).
La signora (si fa per dire) LM non è certo il solo esemplare del genere
che alligni nella scuola italiana, è sfortunatamente un tipo assai
frequente, quello che la mia povera mamma (naturale, oltre che legale)
avrebbe definito “rossa come il fuoco”.
Quello che mi stupisce di
queste persone, i “compagni” con pretese intellettuali, è sempre come
l’arroganza e la saccenteria inveterate si coniughino con l’incapacità
di capire alcunché, si direbbe che dentro il cranio invece di un
cervello abbiano delle pagine della “Repubblica” debitamente
appallottolate: non capiscono proprio che gli obiettivi della loro parte
politica vengono oggi a coincidere con i disegni del grande capitalismo
mondialista di cui sono diventati il più comodo piedistallo. “Utili
idioti” più di così…
In Italia hanno avuto la
fortuna che c’è Berlusconi, un capitalista con cui prendersela per
nascondere il fatto di essere d’accordo con tutti gli altri; se non
c’era, gli toccava inventarselo, anzi, comincio a nutrire il sospetto
che in qualche modo l’abbiano inventato loro.
Con certe persone evito di
parlare, non è che sono tenuto a manifestare le mie idee a chiunque,
specialmente a chi so che parlando con un muro si ottengono migliori
risultati e più soddisfazione che a discutere con loro, che magari sono
capaci di provocarti un sacco di guai, perché la libertà di questa
liberissima democrazia consiste nel tappare la bocca a chi la pensa
diversamente, e ne ho fatto esperienza più di una volta.
Non molto tempo fa, questa
“gentile signora”, versione locale e in sedicesimo della Boldrini e
della Kyenge, è riuscita a trascinarmi in una discussione sullo “ius
soli”, questo provvedimento dovunque senza riscontri nell’Unione
Europea, che il PD vuole introdurre a tutti i costi, che è una pistola
puntata alla tempia del nostro popolo e una vera bestemmia che vuole
cancellare il concetto di “italiano” come appartenente a una certa
stirpe per sostituirlo con quello di nato in un certo territorio.
Di fronte a una mia
cautissima obiezione, costei è esplosa in un delirio cosmopolita e
mondialista, osannando la prospettiva di un mondo dal quale spariranno
nazioni, etnie e culture.
All’improvviso, mi sono reso
conto di una cosa:LA VERA RAZZISTA E’ LEI! I “compagni” hanno un
bell’additare come razzisti atteggiamenti e comportamenti che non sono
altro che espressioni del naturale istinto di sopravvivenza, di
autodifesa di una comunità: i veri razzisti sono loro.
Da tutto il discorso,
infatti, trasudava un fondamentale DISPREZZO per coloro che hanno avuto
la ventura di nascere da genitori della stessa nazionalità, che vivono
nel luogo dove sono nati, dal quale provengono i loro antenati, “choosy”
che non hanno fatto lunghi soggiorni all’estero, non sono andati a
studiare o a lavorare dall’altra parte del pianeta.
Un concetto, devo dire, non
solo razzista, ma fortemente classista: se non si vuole viaggiare nelle
condizioni da bestiame umano dei migranti clandestini, e soprattutto se
ci si vuole permettere lunghi soggiorni all’estero senza sopravvivere
mendicando agli angoli delle strade, occorrono ingenti disponibilità
economiche. E’ anche questa una prova evidente del divorzio ormai
avvenuto fra sinistra e classi lavoratrici, ed è per questo che “i
compagni” cercano di mettere insieme un altro “popolo” ricorrendo a rom,
gay e immigrati.
La mia prima reazione è stata
quella di augurare a questa “gentile collega” di incontrare quanto
prima un Kabobo che la picconi a dovere, ma subito dopo mi è venuto da
riflettere se c’è un legame fra il razzismo localistico del suocero e
quello cosmopolita della nuora; ebbene, è chiaro che c’è: prima di
tutto, in entrambi non è difficile ravvisare un elemento fortemente
anti-italiano. Immaginate solo che fastidio dia a coloro che per
italiani non vogliono riconoscersi, il fatto che esistano persone che
non hanno dimenticato che qui sulla sponda orientale dell’Adriatico,
durante la seconda guerra mondiale da parte antifascista e democratica,
in specie da parte degli slavo-comunisti è stata commessa una serie di
feroci atrocità a sfondo razzista contro le popolazioni italiane inermi,
colpevoli appunto di essere italiane. Nell’occultare le tragedie delle
foibe e dell’esodo, nel tessere un velo mafioso di omertà, austriacanti e
comunisti si sono dati la mano.
La manifestazione di
“razzismo rosso” di LM rappresenta un caso isolato? Io credo proprio di
no, perché posso citare almeno un altro esempio del tutto simile. Anche
questa persona che ho conosciuto per caso la indicherò con le sole
iniziali, CSP (ha un doppio cognome), una persona entusiasticamente di
sinistra, forse con meno irruenza di LM, ma la cui casa è sempre stata
un porto di mare frequentato da gente delle più varie appartenenze
etniche, una specie di Centro di Accoglienza Temporanea privato,
un’altra di quelle persone con cui evito di discutere.
Una volta mi sorprese con
un’uscita sprezzante a proposito di un suo collega meridionale (è
un’impiegata statale). Costui le aveva espresso la propria
insoddisfazione per il fatto di non riuscire ad ambientarsi a Trieste e
il desiderio di ritornare al sud. A quanto pare, le andavano bene
boscimani, pigmei ed esquimesi, ma non “i terroni”. Semplice razzismo
anti-meridionale? Ho l’impressione che ci fosse qualcosa di più. Nella
mente di queste persone esiste una sorta di doppia morale a seconda che
si appartenga o meno alla cosiddetta “civiltà occidentale”. Nel secondo
caso, a tutela di un’ “identità culturale” reale o supposta, è
consentito tutto: dal burqua all’infibulazione, dalla poligamia
all’incesto, magari i sacrifici umani e il cannibalismo. Se invece si ha
la disgrazia di essere “occidentali”, allora invece le prescrizioni
sono estremamente rigide: occorre essere mondialisti e “aperti” al mondo
globalizzato, e sentirsi legati a un luogo, a una cultura d’origine, è
quanto meno una deprecabile colpa.
Io credo che in realtà noi
siamo o dovremmo essere prima di tutto italiani ed europei. Il nostro
continente è sede di una grande civiltà da almeno venticinque secoli, ma
se andiamo a considerare le testimonianze ignorate dagli archeologi che
hanno “la fissa” del Medio Oriente: Malta, Stonehenge, Externsteine,
possiamo probabilmente risalire molto più indietro. L’Europa è composta
di varie culture: latina, ellenica, germanica, celtica, slava. Noi siamo
latini e italici. L’Italia ha nel corso dei secoli ospitato (ma sarebbe
meglio dire GENERATO) varie grandi culture: quella etrusca, quella
romana, quella comunale medievale, quella rinascimentale, con una
produzione ingentissima di cultura materiale e immateriale: arte,
letteratura, architettura, artigianato, tradizioni che probabilmente non
ha uguale sull’intero pianeta. Una cultura a sua volta variegata da una
molteplicità di culture regionali e locali, con i loro dialetti,
usanze, costumi, feste, tradizioni gastronomiche.
Su questo ineguagliabile
tesoro, a partire dalla seconda guerra mondiale si è abbattuta
l’occidentalizzazione, cioè in sostanza l’americanizzazione, come una
colata di cemento su un delicato e prezioso affresco, nel segno della
standardizzazione e dell’appiattimento.
Abbiamo chiesto noi di essere “occidentali”? Siamo andati noi a pregare gli Americani di venire a invaderci nel 1943?
Lasciamo stare ora il fatto
che dopo che l’invasione si è verificata, l’Italia non ha retto alla
prova, che il voltafaccia e il tradimento venuti dall’alto hanno
disorientato e stravolto gli animi, non siamo riusciti a salvare il
nostro onore combattendo l’invasore compatti fino all’ultimo come hanno
invece fatto Germania e Giappone. La viltà e il tradimento di pochi
hanno gettato una macchia indelebile sulla nostra credibilità nazionale
vanificando l’eroismo e il sacrificio di molti, ma questo è un altro
discorso.
Se ci atteniamo alla
definizione classica di razzismo, per esso si intendono comportamenti di
persecuzione e discriminazione di persone non per qualcosa che queste
avrebbero fatto, e nemmeno a motivo di opinioni politiche, religiose o
altro, ma unicamente in ragione delle loro origini.
Se cerchiamo di tradurre in
concreto questa definizione, è subito chiaro che la maggior parte dei
crimini e delle atrocità razziste avvenute dal 1945 in poi sono
attribuibili al comunismo. La valanga di orrore che si scatenò in
seguito al crollo militare dell’Asse ebbe un chiaro intento razzista.
L’intenzione dei leader del comunismo internazionale era quella di far
avanzare in Europa il mondo slavo a spese di quello germanico e latino.
Prima della guerra vivevano a
oriente del fiume Oder quindici milioni di tedeschi. Dopo l’invasione
sovietica si sono contati dodici milioni di profughi a fronte di una
presenza tedesca a est del fiume che oggi divide Germania e Polonia
praticamente cancellata. Di come siano scomparse nel nulla tre milioni
di persone, abbiamo un’idea: la Wehrmacht riuscì nel febbraio 1945 a
liberare temporaneamente alcuni villaggi prussiani occupati dai
sovietici. Si presentarono scene raccapriccianti, da sconvolgere i più
duri veterani: anziani, donne e bambini erano stati atrocemente
torturati prima di essere uccisi. Tutte le donne e le bambine fino a tre
anni di età portavano i segni di ripetuti stupri. La colpa di queste
persone: solo quella di essere tedeschi.
Sul confine orientale
italiano è avvenuta la stessa cosa ad opera questa volta dei comunisti
jugoslavi: persone uccise a decine di migliaia precipitandole negli
inghiottitoi carsici noti come foibe, perché colpevoli di essere
italiani. Se gli assassini comunisti del maresciallo Tito hanno fatto
meno vittime dell’Armata Rossa, non è perché fossero delle belve in
qualche modo meno feroci, ma solo perché il teatro d’azione istriano,
giuliano e dalmata dove operavano, era più ristretto. Stragi sanguinarie
di netta impronta razzista sotto il segno mortifero della bandiera
rossa le une e le altre.
Noi però sbaglieremmo di
grosso se pensassimo che quell’incubo mostruoso che era l’Unione
Sovietica di Stalin abbia aspettato il secondo conflitto mondiale per
manifestare il suo volto non solo oppressivo e sanguinario, ma
apertamente razzista, o che i regimi comunisti postbellici non abbiano
continuato a dimostrare il razzismo più sfacciato e feroce perseguitando
milioni di persone solo in base alla loro appartenenza etnica.
Stalin, che tra l’altro non
era nemmeno russo ma georgiano, ha perseguito la russificazione forzata
dell’Unione Sovietica con una ferocia di cui l’impero zarista non
sarebbe mai stato capace, attuando un vero e proprio programma di
deportazione e annientamento delle minoranze non russe. Deportati fino
all’ultimo uomo, donna, bambino e spediti a morire di freddo e di fame
nelle più desolate plaghe della Siberia, furono i Cosacchi, i Tartari
della Crimea, il piccolo, innocuo popolo dei Balcari e diverse altre
minoranze. Stalin aveva intenzione di riservare lo stesso trattamento
anche all’intero popolo ucraino, ma vi rinunciò semplicemente perché non
vi era un luogo sufficiente per deportare tanti milioni di persone (è
il rapporto Krushev che ce lo rivela), allora pensò bene di farli morire
di fame a casa propria attraverso la carestia provocata, l’HOLODOMOR,
come l’hanno chiamata gli Ucraini, la grande carestia provocata
intenzionalmente dal regime sovietico è stata una delle più atroci
“catastrofi umanitarie” del XX secolo.
In barba al tanto vantato
internazionalismo, alla favola dei “proletari di tutto il mondo uniti”, i
regimi comunisti hanno continuato dopo la guerra la politica razzista
di persecuzione e discriminazione delle minoranze.
Fra le minoranze perseguitate
o almeno discriminate dai regimi comunisti europei ricordiamo gli
Italiani dell’Istria, i Tedeschi della Slesia, gli Ungheresi della
Transilvania, i Finlandesi della Carelia.
Quella però che è riuscita a
strappare all’Unione Sovietica la palma di epicentro dell’orrore
comunista, è la Cina. Non poteva mancare di strappare il suo bravo
primato anche nel campo della politica razzista e genocida, perché
un’assurdità che dobbiamo levarci dalla testa una volta per tutte, è la
convinzione che il razzismo sia un delitto possibile solo alla razza
bianca, e ne riparliamo più avanti.
Oggetto della politica
razzista e persecutoria del governo comunista cinese, sono tutte le
minoranze che non appartengono all’etnia Han, e teniamo presente che,
date le dimensioni di questo perverso colosso, stiamo parlando di
milioni di persone. In particolare, oggetto di una politica ferocemente
razzista tesa a cancellarli come popoli, sono gli Uighur di etnia turca
del Sinkiang, il Turkestan “cinese”, oggi ribattezzato con la grafia
cinesizzata di Xinjiang, e i Tibetani . La logica che ispira il
comunismo cinese nei confronti di queste popolazioni è quella del
genocidio. Nel 1956, il comandante dell’armata cinese che occupò il
Tibet fece alla popolazione di Lahsa un “discorso” estremamente chiaro.
“Ci interessa la terra”, disse, “Voi non ci interessate, di gente ne abbiamo già tanta. Voi potete e dovete crepare”.
La democrazia occidentale
made in USA, questa meravigliosa democrazia per farci dono della quale
nel corso della seconda guerra mondiale l’Europa è stata letteralmente
sepolta sotto un tappeto di bombe che hanno fatto complessivamente
quattro milioni di morti, è del tutto esente da colpe razziste? Non
proprio!
Qualche anno fa la cantante
Frida del noto complesso svedese degli Abba ha raccontato pubblicamente
la storia della sua infanzia, ed è una storia agghiacciante. La donna è
nata in un Lebensborn. Il Lebensborn, “Fonte di vita” era un’istituzione
nazionalsocialista creata per dare ai militari tedeschi la possibilità
di avere rapporti con ragazze selezionate e incrementare le nascite al
di fuori della tradizionale struttura matrimoniale, allo scopo di
colmare almeno parzialmente gli inevitabili vuoti causati dalla guerra.
Le ragazze dei Lebensborn e i loro bambini erano trattati dal
nazionalsocialismo con ogni cura, come un prezioso investimento per il
futuro.
Sconfitta la Germania e
arrivati gli Americani, lo spirito velenoso della democrazia non ci mise
molto a inquinare la “Fonte di vita” trasformandola in una fonte di
morte. I Lebensborn furono trasformati in luoghi di detenzione. Per gli
yankee, quei bambini erano “i figli di Hitler” e ci misero la massima
cura nel far sì che nessuno di loro potesse raggiungere l’età adulta. A
tutt’oggi, non si sa se, a parte qualche caso eccezionale come quello di
Frida, qualcuno di loro sia sopravvissuto. Bambini che furono
condannati a morire di stenti per una sola colpa: quella di essere nati,
razzismo abietto e repellente, tanto più vile in quanto si è accanito
contro vittime indifese, e quel che più conta, squisitamente
DEMOCRATICO.
Frida e sua madre riuscirono a
salvarsi con una fuga rocambolesca, raggiungendo la Svezia che, essendo
rimasta neutrale durante la guerra, non aveva subito la disgrazia
dell’occupazione americana.
Parlando di razzismo “made in
USA” non intendo riferirmi a quella blanda forma di apartheid che è
esistita negli Stati Uniti fino agli anni ’60 e che oggi è una cosa
ormai scomparsa da mezzo secolo, ma a qualcosa di assolutamente
presente, di più profondo, un tipo di razzismo che è sostanziale alla
democrazia stessa, a quella democrazia che ci costrinsero volenti o
nolenti a subire dopo averci spezzato la schiena nella seconda guerra
mondiale, precisamente quel tipo di razzismo cosmopolita che piace tanto
agli idioti che pullulano nella sinistra nostrana.
“In futuro”, disse, “Non ci
sarà spazio in Europa per popoli non ibridati. E’ per questo che abbiamo
combattuto dalla seconda guerra mondiale in poi”.
Qui si può toccare con mano
quanto sia falso e ipocrita il concetto stesso di democrazia. Il popolo è
ben lungi dall’essere sovrano, non gli è concesso di decidere nulla,
neppure di continuare a esistere.
E i popoli che non accettano
di essere ibridati, di vedere sconvolta la loro identità finora
preservata attraverso i secoli? Dovranno essere discriminati,
perseguitati, annientati come appunto si è cercato di fare con i Serbi.
E’ forse un caso che proprio
nel teatro balcanico si sia fatto un uso massiccio di proiettili
all’uranio cosiddetto impoverito, che hanno sparso una radioattività
destinata a lasciare nelle generazioni future una scia agghiacciante di
mutazioni e cancri, non diversamente da quanto accade in Giappone che
continua ancora oggi a subire le conseguenze dei bombardamenti nucleari
di Hiroshima e Nagasaki?
Su un altro piano è forse un
caso che il premier italiano che porta la vergogna di aver concesso alla
NATO le basi per aggredire la Serbia con raid che partivano dal nostro
territorio, sia stato proprio Massimo D’Alema, non solo ex comunista, ma
diventato segretario dell’ex PCI subito dopo la sua trasformazione in
PDS, e già vice dell’ultimo segretario (dichiaratamente) comunista
Achille Occhetto?
La pupilla dell’occhio degli
USA e di tutti i leccatori di fondoschiena degli USA che fanno finta di
non vedere di essere servi di un servo, è ovviamente Israele, l’unico
stato che può permettersi apertamente una politica non solo razzista, ma
anche genocida, tesa a cancellare il popolo arabo palestinese dalla
faccia della terra.
Questo è talmente evidente,
sotto gli occhi di tutti, che non occorre insisterci sopra. Quel che è
invece importante rilevare, è che l’ebraismo è DI PER SE’ un’ideologia
fanaticamente razzista. L’ebraismo non è una religione, è piuttosto
un’ideologia razzista con un travestimento religioso.
Per l’ebraismo, tutta la
creazione e tutti gli altri esseri umani esistono in funzione degli
ebrei, “il popolo eletto”, per servirli. Secondo il Talmud, se un ebreo
lancia una pietra per uccidere un goj (un “pagano”, un non ebreo) o una
bestia, e colpisce invece un ebreo, non è colpevole. Si noti che il goj,
il non ebreo e la bestia sono messi esattamente sullo stesso piano.
Credere che un tipo di
delitto, in specie il razzismo, sia possibile solo a una data razza,
quella bianca, non è di per sé una forma di razzismo? Un razzismo che “i
compagni” e i fanatici del mondialismo e della società multietnica
rivolgono masochisticamente contro la propria gente. Costoro fanno finta
di non vedere e fanno di tutto per tenerci nascosta la realtà
estremamente concreta del razzismo anti-bianco; che ad esempio la caccia
al bianco è diventata lo sport più popolare del Sudafrica
post-apartheid, o il veleno di odio anti-bianco che gronda dai testi
delle canzoni dei rapper afro-americani.
Facciamo pure la tara del
risentimento post-coloniale e post-schiavistico (anche se c’è da
chiedersi quanto essi debbano durare per generazioni per cui essi sono
un lontano ricordo storico, o se il colonialismo non abbia fatto più
bene che male all’Africa, portandola dalla preistoria all’età moderna),
ma quale genere di colpa storica grava ad esempio sui Pigmei, che pure i
connazionali del nostro ministro per l’integrazione trattano come
bestiame, e sembrerebbe caccino ancora a fini di cannibalismo? La pura e
semplice verità è che il razzismo non è affatto una prerogativa
“bianca”.
Questa gente approda sulle
nostre coste per farsi mantenere da noi, e di sicuro non ci ama, non
vuole integrarsi – levatevela dalla testa questa scemenza
dell’integrazione – ma soppiantarci, è lo strumento della lenta agonia
dei popoli europei. Uno strumento fino a che punto inconsapevole? Molto
meno, io credo, di quanto si pensi. E questi “compagni” che danno così
gagliardamente una mano alla soppressione della loro gente, vuoi per
mero calcolo elettoralistico, vuoi per intossicazione mentale
democratico-mondialista, sono forse inconsapevoli di quello che stanno
facendo?
Non lo credo, non lo credo
affatto, questa è l’attuazione di un piano di genocidio “soft” su larga
scala rimasto bloccato per una generazione o due in conseguenza della
Guerra Fredda, ma progettato qualcosa come tre quarti di secolo fa.
Forse si ricorderà la
tracotante affermazione del leader “socialista islamico” algerino Huari
Boumedienne già mezzo secolo fa: l’arma per distruggere l’odiata Europa
c’era, ed era il prolifico ventre delle donne magrebine. Tempo fa mi è
capitato di imbattermi in uno scritto della psicanalista francese
Françoise Dolto, di impostazione marxista-freudiana. Costei, trovandosi a
curare un ragazzo mulatto, di padre africano e madre francese, che
soffriva psicologicamente della sua condizione ibrida, l’aveva
rassicurato: era l’avanguardia di una nuova umanità, un giorno TUTTI
sarebbero stati come lui. Sono rimasto esterrefatto: il brano è del
1970, quando i flussi migratori che oggi invadono e stravolgono l’Europa
non erano certo prevedibili.
Noi che vogliamo difendere il
futuro della nostra gente ci troviamo oggi in una situazione di
schiacciante svantaggio, ma chissà, potrebbe anche essere che giunti
sull’orlo del baratro i popoli europei trovino un soprassalto di
orgoglio e determinazione.
Democratici e marxisti, se perdono, perdono, ma se vincono hanno perso ugualmente, dalla loro parte c’è solo morte.
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