sabato 2 settembre 2017

RAZZISMO ROSSO...

Razzismo rosso (E se i veri razzisti fossero “compagni” e democratici?)

La storia che vi voglio raccontare inizia mezzo secolo fa, eravamo a Trieste negli anni ’60. Siamo in una scuola elementare cittadina, in una classe terza. Un maestro, Claudio N. sta dettando un brano agli alunni. Il brano riguardava gli antichi Egizi e i loro metodi di scrittura e di calcolo. A un certo punto uno degli alunni, forse un po’ più impacciato degli altri – si tratta di uno dei più piccoli della classe, è di novembre, e ancora non ha compiuto nove anni, e siamo in un’età in cui certe differenze ancora pesano – alza la mano chiedendogli di ripetere le ultime frasi, perché è rimasto un po’ indietro.
E’ vero che Claudio N. (che l’anima sua non abbia pace!) non era certo un docente esemplare, che spesso lo si poteva trovare in una bettola antistante la scuola, che aveva sempre le guance e il naso vistosamente arrossati e talvolta l’alito alquanto vinoso, ma un uomo fatto, un insegnante per di più, prendersela a quel modo con un bambino di nemmeno nove anni!
Il motivo di tanto rancore in realtà c’era anche se difficile da confessare ad alta voce, quel bambino aveva il torto di portare un cognome chiaramente “terrone”: Calabrese.
Claudio N. non era solo un razzista ma – per fortuna, dovrei dire – era anche un imbecille. Mia madre andò a parlare con lui, e quando seppe che avevo origini per metà toscane, si sciolse, diventò molto più malleabile di quanto fosse stato fin allora, e probabilmente si era reso conto di averla fatta troppo sporca.
Claudio N. era un cultore di folclore locale, ha acquisito una certa fama cittadina con una raccolta di canzoni dialettali (da osteria, prevalentemente), era un “triestinista puro”, di quelli che – e ce ne sono ancora – non hanno finito di maledire l’infausto giorno del 3 novembre 1918, quando la prima nave italiana, il cacciatorpediniere “Audace” attraccò nel porto di Trieste, quelli che “L’Austria era un Paese ordinato” eccetera, eccetera, a cui quel po’ di immigrazione che c’è stata nel capoluogo giuliano dall’interno dell’Italia, soprattutto dal sud, dava e dà terribilmente fastidio.
Un atteggiamento, nei fatti, tremendamente miope. Mio padre, un uomo di intemerata onestà, grande bontà, grandissimo lavoratore, mi ha insegnato tante cose con il suo esempio. Nei nove anni dell’occupazione militare angloamericana rischiò quasi quotidianamente la pelle per manifestare per l’italianità di Trieste, e negli scontri con gli slavo-comunisti non ci si limitava ai pestaggi, spesso spuntavano coltelli e talvolta armi da fuoco. Nel novembre 1953 la polizia angloamericana sparò ad altezza d’uomo sulla folla facendo quattro morti, fra cui un bambino. Diceva di aver vissuto tutte le esperienze della vita, tranne esserci nato, per considerarsi cittadino di questa città, compreso il carcere fatto ovviamente per politica. Non era molto alto, poco più di 1,60, ma fatto di idealismo, amor di patria, orgoglio, coraggio dalla punta dei piedi alla cima dei capelli.
Un giorno, mi fece osservare che se non ci fossimo stati noi “taliani” come dicono qui (con il sottinteso che loro, i triestini “doc” italiani non siano), gli italiani di Trieste, compresi quelli che non vogliono riconoscersi come tali, sarebbero svaniti da un pezzo sotto la pressione slava. Io non so se oggi lo consolerebbe o sarebbe motivo di ulteriore amarezza sapere che tutti noi, italiani e sloveni, tutti noi europei, a Trieste, in Italia, in Europa, rischiamo di essere spazzati via dalla valanga dell’immigrazione terzomondista.
Detesto dirlo, ricorda un po’ la favola del brutto anatroccolo, ma mezzo secolo dopo, quel bambino di nove anni maltrattato è diventato un insegnante, uno scrittore che ha all’attivo la pubblicazione di diversi libri, e certo non ha aspettato che fosse passato un così lungo arco di vita per mettersi in luce come militante di estrema destra e, in questa liberissima democrazia in cui pensare controcorrente è un reato, accumulare anche qualche noia giudiziaria. Ma la cosa interessante è forse che, io non potevo certo saperlo allora né in seguito, ma avevo un appuntamento dopo quasi una vita con il prosieguo di questa storia della mia infanzia.
Mezzo secolo – quasi una vita, appunto – più tardi, mi sono trovato nella scuola dove insegno, un ragazzo di colore, un etiope ovviamente adottato, con lo stesso cognome di quell’antico e non rimpianto maestro. Non mi ci è voluto molto per appurare che si tratta del “nipote” dello stesso grande uomo e grande pedagogo. In generale vedere intorno quelle facce scure non mi piace, mi ricorda troppo che ci stanno un po’ alla volta soppiantando, che ci stanno facendo sparire come popolo, ma questo ragazzo nero mi procurò un senso di ilarità. Io sono molto scettico sull’esistenza del soprannaturale, del post-mortem, ma mi piacerebbe tanto pensare che da qualche parte l’anima di quell’uomo allergico ai “terroni” “si goda” lo spettacolo del suo triestinissimo cognome portato avanti da un nero, che le sue ossa si rivoltino nella tomba tutte le volte che con esso qualcuno chiama questa persona di colore.
Ma la storia non finisce qui perché sfortunatamente mi ritrovo come collega “la madre” di questo ragazzo. (Scusatemi, ma devo insistere con le virgolette: la filiazione NON E’ un rapporto giuridico, o è un rapporto DI SANGUE o non è nulla). La signora (si fa per dire) LM non è certo il solo esemplare del genere che alligni nella scuola italiana, è sfortunatamente un tipo assai frequente, quello che la mia povera mamma (naturale, oltre che legale) avrebbe definito “rossa come il fuoco”.
Quello che mi stupisce di queste persone, i “compagni” con pretese intellettuali, è sempre come l’arroganza e la saccenteria inveterate si coniughino con l’incapacità di capire alcunché, si direbbe che dentro il cranio invece di un cervello abbiano delle pagine della “Repubblica” debitamente appallottolate: non capiscono proprio che gli obiettivi della loro parte politica vengono oggi a coincidere con i disegni del grande capitalismo mondialista di cui sono diventati il più comodo piedistallo. “Utili idioti” più di così…
In Italia hanno avuto la fortuna che c’è Berlusconi, un capitalista con cui prendersela per nascondere il fatto di essere d’accordo con tutti gli altri; se non c’era, gli toccava inventarselo, anzi, comincio a nutrire il sospetto che in qualche modo l’abbiano inventato loro.
Con certe persone evito di parlare, non è che sono tenuto a manifestare le mie idee a chiunque, specialmente a chi so che parlando con un muro si ottengono migliori risultati e più soddisfazione che a discutere con loro, che magari sono capaci di provocarti un sacco di guai, perché la libertà di questa liberissima democrazia consiste nel tappare la bocca a chi la pensa diversamente, e ne ho fatto esperienza più di una volta.
Non molto tempo fa, questa “gentile signora”, versione locale e in sedicesimo della Boldrini e della Kyenge, è riuscita a trascinarmi in una discussione sullo “ius soli”, questo provvedimento dovunque senza riscontri nell’Unione Europea, che il PD vuole introdurre a tutti i costi, che è una pistola puntata alla tempia del nostro popolo e una vera bestemmia che vuole cancellare il concetto di “italiano” come appartenente a una certa stirpe per sostituirlo con quello di nato in un certo territorio.
Di fronte a una mia cautissima obiezione, costei è esplosa in un delirio cosmopolita e mondialista, osannando la prospettiva di un mondo dal quale spariranno nazioni, etnie e culture.
All’improvviso, mi sono reso conto di una cosa:LA VERA RAZZISTA E’ LEI! I “compagni” hanno un bell’additare come razzisti atteggiamenti e comportamenti che non sono altro che espressioni del naturale istinto di sopravvivenza, di autodifesa di una comunità: i veri razzisti sono loro.
Da tutto il discorso, infatti, trasudava un fondamentale DISPREZZO per coloro che hanno avuto la ventura di nascere da genitori della stessa nazionalità, che vivono nel luogo dove sono nati, dal quale provengono i loro antenati, “choosy” che non hanno fatto lunghi soggiorni all’estero, non sono andati a studiare o a lavorare dall’altra parte del pianeta.
Un concetto, devo dire, non solo razzista, ma fortemente classista: se non si vuole viaggiare nelle condizioni da bestiame umano dei migranti clandestini, e soprattutto se ci si vuole permettere lunghi soggiorni all’estero senza sopravvivere mendicando agli angoli delle strade, occorrono ingenti disponibilità economiche. E’ anche questa una prova evidente del divorzio ormai avvenuto fra sinistra e classi lavoratrici, ed è per questo che “i compagni” cercano di mettere insieme un altro “popolo” ricorrendo a rom, gay e immigrati.
La mia prima reazione è stata quella di augurare a questa “gentile collega” di incontrare quanto prima un Kabobo che la picconi a dovere, ma subito dopo mi è venuto da riflettere se c’è un legame fra il razzismo localistico del suocero e quello cosmopolita della nuora; ebbene, è chiaro che c’è: prima di tutto, in entrambi non è difficile ravvisare un elemento fortemente anti-italiano. Immaginate solo che fastidio dia a coloro che per italiani non vogliono riconoscersi, il fatto che esistano persone che non hanno dimenticato che qui sulla sponda orientale dell’Adriatico, durante la seconda guerra mondiale da parte antifascista e democratica, in specie da parte degli slavo-comunisti è stata commessa una serie di feroci atrocità a sfondo razzista contro le popolazioni italiane inermi, colpevoli appunto di essere italiane. Nell’occultare le tragedie delle foibe e dell’esodo, nel tessere un velo mafioso di omertà, austriacanti e comunisti si sono dati la mano.
La manifestazione di “razzismo rosso” di LM rappresenta un caso isolato? Io credo proprio di no, perché posso citare almeno un altro esempio del tutto simile. Anche questa persona che ho conosciuto per caso la indicherò con le sole iniziali, CSP (ha un doppio cognome), una persona entusiasticamente di sinistra, forse con meno irruenza di LM, ma la cui casa è sempre stata un porto di mare frequentato da gente delle più varie appartenenze etniche, una specie di Centro di Accoglienza Temporanea privato, un’altra di quelle persone con cui evito di discutere.
Una volta mi sorprese con un’uscita sprezzante a proposito di un suo collega meridionale (è un’impiegata statale). Costui le aveva espresso la propria insoddisfazione per il fatto di non riuscire ad ambientarsi a Trieste e il desiderio di ritornare al sud. A quanto pare, le andavano bene boscimani, pigmei ed esquimesi, ma non “i terroni”. Semplice razzismo anti-meridionale? Ho l’impressione che ci fosse qualcosa di più. Nella mente di queste persone esiste una sorta di doppia morale a seconda che si appartenga o meno alla cosiddetta “civiltà occidentale”. Nel secondo caso, a tutela di un’ “identità culturale” reale o supposta, è consentito tutto: dal burqua all’infibulazione, dalla poligamia all’incesto, magari i sacrifici umani e il cannibalismo. Se invece si ha la disgrazia di essere “occidentali”, allora invece le prescrizioni sono estremamente rigide: occorre essere mondialisti e “aperti” al mondo globalizzato, e sentirsi legati a un luogo, a una cultura d’origine, è quanto meno una deprecabile colpa.
Io credo che in realtà noi siamo o dovremmo essere prima di tutto italiani ed europei. Il nostro continente è sede di una grande civiltà da almeno venticinque secoli, ma se andiamo a considerare le testimonianze ignorate dagli archeologi che hanno “la fissa” del Medio Oriente: Malta, Stonehenge, Externsteine, possiamo probabilmente risalire molto più indietro. L’Europa è composta di varie culture: latina, ellenica, germanica, celtica, slava. Noi siamo latini e italici. L’Italia ha nel corso dei secoli ospitato (ma sarebbe meglio dire GENERATO) varie grandi culture: quella etrusca, quella romana, quella comunale medievale, quella rinascimentale, con una produzione ingentissima di cultura materiale e immateriale: arte, letteratura, architettura, artigianato, tradizioni che probabilmente non ha uguale sull’intero pianeta. Una cultura a sua volta variegata da una molteplicità di culture regionali e locali, con i loro dialetti, usanze, costumi, feste, tradizioni gastronomiche.
Su questo ineguagliabile tesoro, a partire dalla seconda guerra mondiale si è abbattuta l’occidentalizzazione, cioè in sostanza l’americanizzazione, come una colata di cemento su un delicato e prezioso affresco, nel segno della standardizzazione e dell’appiattimento.
Abbiamo chiesto noi di essere “occidentali”? Siamo andati noi a pregare gli Americani di venire a invaderci nel 1943?
Lasciamo stare ora il fatto che dopo che l’invasione si è verificata, l’Italia non ha retto alla prova, che il voltafaccia e il tradimento venuti dall’alto hanno disorientato e stravolto gli animi, non siamo riusciti a salvare il nostro onore combattendo l’invasore compatti fino all’ultimo come hanno invece fatto Germania e Giappone. La viltà e il tradimento di pochi hanno gettato una macchia indelebile sulla nostra credibilità nazionale vanificando l’eroismo e il sacrificio di molti, ma questo è un altro discorso.
Se ci atteniamo alla definizione classica di razzismo, per esso si intendono comportamenti di persecuzione e discriminazione di persone non per qualcosa che queste avrebbero fatto, e nemmeno a motivo di opinioni politiche, religiose o altro, ma unicamente in ragione delle loro origini.
Se cerchiamo di tradurre in concreto questa definizione, è subito chiaro che la maggior parte dei crimini e delle atrocità razziste avvenute dal 1945 in poi sono attribuibili al comunismo. La valanga di orrore che si scatenò in seguito al crollo militare dell’Asse ebbe un chiaro intento razzista. L’intenzione dei leader del comunismo internazionale era quella di far avanzare in Europa il mondo slavo a spese di quello germanico e latino.
Prima della guerra vivevano a oriente del fiume Oder quindici milioni di tedeschi. Dopo l’invasione sovietica si sono contati dodici milioni di profughi a fronte di una presenza tedesca a est del fiume che oggi divide Germania e Polonia praticamente cancellata. Di come siano scomparse nel nulla tre milioni di persone, abbiamo un’idea: la Wehrmacht riuscì nel febbraio 1945 a liberare temporaneamente alcuni villaggi prussiani occupati dai sovietici. Si presentarono scene raccapriccianti, da sconvolgere i più duri veterani: anziani, donne e bambini erano stati atrocemente torturati prima di essere uccisi. Tutte le donne e le bambine fino a tre anni di età portavano i segni di ripetuti stupri. La colpa di queste persone: solo quella di essere tedeschi.
Sul confine orientale italiano è avvenuta la stessa cosa ad opera questa volta dei comunisti jugoslavi: persone uccise a decine di migliaia precipitandole negli inghiottitoi carsici noti come foibe, perché colpevoli di essere italiani. Se gli assassini comunisti del maresciallo Tito hanno fatto meno vittime dell’Armata Rossa, non è perché fossero delle belve in qualche modo meno feroci, ma solo perché il teatro d’azione istriano, giuliano e dalmata dove operavano, era più ristretto. Stragi sanguinarie di netta impronta razzista sotto il segno mortifero della bandiera rossa le une e le altre.
Noi però sbaglieremmo di grosso se pensassimo che quell’incubo mostruoso che era l’Unione Sovietica di Stalin abbia aspettato il secondo conflitto mondiale per manifestare il suo volto non solo oppressivo e sanguinario, ma apertamente razzista, o che i regimi comunisti postbellici non abbiano continuato a dimostrare il razzismo più sfacciato e feroce perseguitando milioni di persone solo in base alla loro appartenenza etnica.
Stalin, che tra l’altro non era nemmeno russo ma georgiano, ha perseguito la russificazione forzata dell’Unione Sovietica con una ferocia di cui l’impero zarista non sarebbe mai stato capace, attuando un vero e proprio programma di deportazione e annientamento delle minoranze non russe. Deportati fino all’ultimo uomo, donna, bambino e spediti a morire di freddo e di fame nelle più desolate plaghe della Siberia, furono i Cosacchi, i Tartari della Crimea, il piccolo, innocuo popolo dei Balcari e diverse altre minoranze. Stalin aveva intenzione di riservare lo stesso trattamento anche all’intero popolo ucraino, ma vi rinunciò semplicemente perché non vi era un luogo sufficiente per deportare tanti milioni di persone (è il rapporto Krushev che ce lo rivela), allora pensò bene di farli morire di fame a casa propria attraverso la carestia provocata, l’HOLODOMOR, come l’hanno chiamata gli Ucraini, la grande carestia provocata intenzionalmente dal regime sovietico è stata una delle più atroci “catastrofi umanitarie” del XX secolo.
In barba al tanto vantato internazionalismo, alla favola dei “proletari di tutto il mondo uniti”, i regimi comunisti hanno continuato dopo la guerra la politica razzista di persecuzione e discriminazione delle minoranze.
Fra le minoranze perseguitate o almeno discriminate dai regimi comunisti europei ricordiamo gli Italiani dell’Istria, i Tedeschi della Slesia, gli Ungheresi della Transilvania, i Finlandesi della Carelia.
Quella però che è riuscita a strappare all’Unione Sovietica la palma di epicentro dell’orrore comunista, è la Cina. Non poteva mancare di strappare il suo bravo primato anche nel campo della politica razzista e genocida, perché un’assurdità che dobbiamo levarci dalla testa una volta per tutte, è la convinzione che il razzismo sia un delitto possibile solo alla razza bianca, e ne riparliamo più avanti.
Oggetto della politica razzista e persecutoria del governo comunista cinese, sono tutte le minoranze che non appartengono all’etnia Han, e teniamo presente che, date le dimensioni di questo perverso colosso, stiamo parlando di milioni di persone. In particolare, oggetto di una politica ferocemente razzista tesa a cancellarli come popoli, sono gli Uighur di etnia turca del Sinkiang, il Turkestan “cinese”, oggi ribattezzato con la grafia cinesizzata di Xinjiang, e i Tibetani . La logica che ispira il comunismo cinese nei confronti di queste popolazioni è quella del genocidio. Nel 1956, il comandante dell’armata cinese che occupò il Tibet fece alla popolazione di Lahsa un “discorso” estremamente chiaro.
“Ci interessa la terra”, disse, “Voi non ci interessate, di gente ne abbiamo già tanta. Voi potete e dovete crepare”.
La democrazia occidentale made in USA, questa meravigliosa democrazia per farci dono della quale nel corso della seconda guerra mondiale l’Europa è stata letteralmente sepolta sotto un tappeto di bombe che hanno fatto complessivamente quattro milioni di morti, è del tutto esente da colpe razziste? Non proprio!
Qualche anno fa la cantante Frida del noto complesso svedese degli Abba ha raccontato pubblicamente la storia della sua infanzia, ed è una storia agghiacciante. La donna è nata in un Lebensborn. Il Lebensborn, “Fonte di vita” era un’istituzione nazionalsocialista creata per dare ai militari tedeschi la possibilità di avere rapporti con ragazze selezionate e incrementare le nascite al di fuori della tradizionale struttura matrimoniale, allo scopo di colmare almeno parzialmente gli inevitabili vuoti causati dalla guerra. Le ragazze dei Lebensborn e i loro bambini erano trattati dal nazionalsocialismo con ogni cura, come un prezioso investimento per il futuro.
Sconfitta la Germania e arrivati gli Americani, lo spirito velenoso della democrazia non ci mise molto a inquinare la “Fonte di vita” trasformandola in una fonte di morte. I Lebensborn furono trasformati in luoghi di detenzione. Per gli yankee, quei bambini erano “i figli di Hitler” e ci misero la massima cura nel far sì che nessuno di loro potesse raggiungere l’età adulta. A tutt’oggi, non si sa se, a parte qualche caso eccezionale come quello di Frida, qualcuno di loro sia sopravvissuto. Bambini che furono condannati a morire di stenti per una sola colpa: quella di essere nati, razzismo abietto e repellente, tanto più vile in quanto si è accanito contro vittime indifese, e quel che più conta, squisitamente DEMOCRATICO.
Frida e sua madre riuscirono a salvarsi con una fuga rocambolesca, raggiungendo la Svezia che, essendo rimasta neutrale durante la guerra, non aveva subito la disgrazia dell’occupazione americana.
Parlando di razzismo “made in USA” non intendo riferirmi a quella blanda forma di apartheid che è esistita negli Stati Uniti fino agli anni ’60 e che oggi è una cosa ormai scomparsa da mezzo secolo, ma a qualcosa di assolutamente presente, di più profondo, un tipo di razzismo che è sostanziale alla democrazia stessa, a quella democrazia che ci costrinsero volenti o nolenti a subire dopo averci spezzato la schiena nella seconda guerra mondiale, precisamente quel tipo di razzismo cosmopolita che piace tanto agli idioti che pullulano nella sinistra nostrana.
“In futuro”, disse, “Non ci sarà spazio in Europa per popoli non ibridati. E’ per questo che abbiamo combattuto dalla seconda guerra mondiale in poi”.
Qui si può toccare con mano quanto sia falso e ipocrita il concetto stesso di democrazia. Il popolo è ben lungi dall’essere sovrano, non gli è concesso di decidere nulla, neppure di continuare a esistere.
E i popoli che non accettano di essere ibridati, di vedere sconvolta la loro identità finora preservata attraverso i secoli? Dovranno essere discriminati, perseguitati, annientati come appunto si è cercato di fare con i Serbi.
E’ forse un caso che proprio nel teatro balcanico si sia fatto un uso massiccio di proiettili all’uranio cosiddetto impoverito, che hanno sparso una radioattività destinata a lasciare nelle generazioni future una scia agghiacciante di mutazioni e cancri, non diversamente da quanto accade in Giappone che continua ancora oggi a subire le conseguenze dei bombardamenti nucleari di Hiroshima e Nagasaki?
Su un altro piano è forse un caso che il premier italiano che porta la vergogna di aver concesso alla NATO le basi per aggredire la Serbia con raid che partivano dal nostro territorio, sia stato proprio Massimo D’Alema, non solo ex comunista, ma diventato segretario dell’ex PCI subito dopo la sua trasformazione in PDS, e già vice dell’ultimo segretario (dichiaratamente) comunista Achille Occhetto?
La pupilla dell’occhio degli USA e di tutti i leccatori di fondoschiena degli USA che fanno finta di non vedere di essere servi di un servo, è ovviamente Israele, l’unico stato che può permettersi apertamente una politica non solo razzista, ma anche genocida, tesa a cancellare il popolo arabo palestinese dalla faccia della terra.
Questo è talmente evidente, sotto gli occhi di tutti, che non occorre insisterci sopra. Quel che è invece importante rilevare, è che l’ebraismo è DI PER SE’ un’ideologia fanaticamente razzista. L’ebraismo non è una religione, è piuttosto un’ideologia razzista con un travestimento religioso.
Per l’ebraismo, tutta la creazione e tutti gli altri esseri umani esistono in funzione degli ebrei, “il popolo eletto”, per servirli. Secondo il Talmud, se un ebreo lancia una pietra per uccidere un goj (un “pagano”, un non ebreo) o una bestia, e colpisce invece un ebreo, non è colpevole. Si noti che il goj, il non ebreo e la bestia sono messi esattamente sullo stesso piano.
Credere che un tipo di delitto, in specie il razzismo, sia possibile solo a una data razza, quella bianca, non è di per sé una forma di razzismo? Un razzismo che “i compagni” e i fanatici del mondialismo e della società multietnica rivolgono masochisticamente contro la propria gente. Costoro fanno finta di non vedere e fanno di tutto per tenerci nascosta la realtà estremamente concreta del razzismo anti-bianco; che ad esempio la caccia al bianco è diventata lo sport più popolare del Sudafrica post-apartheid, o il veleno di odio anti-bianco che gronda dai testi delle canzoni dei rapper afro-americani.
Facciamo pure la tara del risentimento post-coloniale e post-schiavistico (anche se c’è da chiedersi quanto essi debbano durare per generazioni per cui essi sono un lontano ricordo storico, o se il colonialismo non abbia fatto più bene che male all’Africa, portandola dalla preistoria all’età moderna), ma quale genere di colpa storica grava ad esempio sui Pigmei, che pure i connazionali del nostro ministro per l’integrazione trattano come bestiame, e sembrerebbe caccino ancora a fini di cannibalismo? La pura e semplice verità è che il razzismo non è affatto una prerogativa “bianca”.
Questa gente approda sulle nostre coste per farsi mantenere da noi, e di sicuro non ci ama, non vuole integrarsi – levatevela dalla testa questa scemenza dell’integrazione – ma soppiantarci, è lo strumento della lenta agonia dei popoli europei. Uno strumento fino a che punto inconsapevole? Molto meno, io credo, di quanto si pensi. E questi “compagni” che danno così gagliardamente una mano alla soppressione della loro gente, vuoi per mero calcolo elettoralistico, vuoi per intossicazione mentale democratico-mondialista, sono forse inconsapevoli di quello che stanno facendo?
Non lo credo, non lo credo affatto, questa è l’attuazione di un piano di genocidio “soft” su larga scala rimasto bloccato per una generazione o due in conseguenza della Guerra Fredda, ma progettato qualcosa come tre quarti di secolo fa.
Forse si ricorderà la tracotante affermazione del leader “socialista islamico” algerino Huari Boumedienne già mezzo secolo fa: l’arma per distruggere l’odiata Europa c’era, ed era il prolifico ventre delle donne magrebine. Tempo fa mi è capitato di imbattermi in uno scritto della psicanalista francese Françoise Dolto, di impostazione marxista-freudiana. Costei, trovandosi a curare un ragazzo mulatto, di padre africano e madre francese, che soffriva psicologicamente della sua condizione ibrida, l’aveva rassicurato: era l’avanguardia di una nuova umanità, un giorno TUTTI sarebbero stati come lui. Sono rimasto esterrefatto: il brano è del 1970, quando i flussi migratori che oggi invadono e stravolgono l’Europa non erano certo prevedibili.
Noi che vogliamo difendere il futuro della nostra gente ci troviamo oggi in una situazione di schiacciante svantaggio, ma chissà, potrebbe anche essere che giunti sull’orlo del baratro i popoli europei trovino un soprassalto di orgoglio e determinazione.
Democratici e marxisti, se perdono, perdono, ma se vincono hanno perso ugualmente, dalla loro parte c’è solo morte.
 
                                                                                                                                

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