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Mario Consoli
Al servizio del
mondialismo
La paradossale
vocazione del comunismo e dei governi di sinistra a favorire il potere
dell'alta finanza internazionale
Il rapporto tra governi
di sinistra e «poteri forti»
- La truffa della
guerra fredda - Possibilità di giungere ad una corretta
interpretazione della storia del XX secolo - Chi volle
veramente la II Guerra Mondiale? - L'autentico significato dello
scontro Imprevedibilità dell'esito bellico - Il ruolo di Stalin e del
regime sovietico - La battaglia di Berlino - L'Armata
Rossa,gli stermini, le violenze e gli stupri - Il vero vincitore dei
conflitti del XX secolo - L'ininterrotto
filo di collusioni tra comunismo e mondialismo
I primi provvedimenti del governo della
coalizione di sinistra presieduta da Romano Prodi confermano i timori emersi
nella vigilia elettorale. Come previsto, si è già dimostrato governo dei
poteri forti.
Un esempio molto significativo: il decreto
Visco ha reso obbligatorio l'utilizzo della transazione bancaria per i
pagamenti ai professionisti. Tutti i movimenti finanziari superiori a cento
euro - sia in attivo che in passivo - che riguardano gli «esercenti arti
e professioni» dovranno passare attraverso un istituto di credito.
Chi non è titolare di un conto in banca - per
necessità o per scelta poco importa - e ha mal di denti, o trova un
odontoiatra disposto a fare l'evasore fiscale, o ha un parente od amico
pronto a soccorrerlo col suo libretto d'assegni, o si tiene il mal di denti.
Chi non è inserito nella struttura bancaria
non ha più diritto d'esistere!
Il provvedimento apparentemente potrebbe
sembrare ispirato al desiderio di combattere l'evasione ed incrementare gli
introiti fiscali, ma nella realtà, considerando la questione da tutti i
punti di vista, è più probabile che provocherà un ulteriore aumento delle
attività «in nero».
Quel che invece è certo è che il numero dei
conti correnti subirà un vistoso incremento. Le banche, grazie al decreto
Visco, otterranno un deciso accrescimento del loro già cospicuo bottino a
danno dei cittadini. E, inoltre, di fatto si delega al controllo dei
contribuenti italiani una struttura che, oltre ad essere assolutamente
privata, oltre ad essere ispirata esclusivamente dall'utile usurario -
quindi estranea ad ogni valore morale e ad ogni vincolo etico - ha più
volte, sfrontatamente, affermato la propria determinazione di porsi fuori
della normale applicazione delle leggi.
Si ricordi la questione
dell'anatocismo: le banche furono condannate - nei tre canonici gradi di
giudizio - a restituire ai propri clienti gli interessi sugli interessi
indebitamente conteggiati ed incassati. Complessivamente una cifra enorme:
120.000 miliardi delle vecchie lire. Le banche, a questo punto, proprio come
in una scena del «Padrino», fecero semplicemente sapere che «non
avrebbero pagato». La Comunità Europea corse subito ai ripari e rimandò
la questione alla Corte di Giustizia Europea, mettendo a disposizione delle
banche italiane altri due gradi di giudizio. Eravamo nel novembre del 2004;
da allora nessun correntista ha ricevuto un euro di risarcimento e
dell'anatocismo non si è più parlato.
È dunque a queste organizzazioni fuori
legge che il governo chiede aiuto nella lotta all'evasione fiscale.
E siamo solo ai primissimi provvedimenti. Si
tratta ancora di questioni sicuramente di piccolo cabotaggio, ma sufficienti
a indicare quali interessi si vogliono tutelare e a quali poteri si intende
ubbidire.
Da Prodi non ci si poteva
aspettare nulla di diverso: uomo della Goldman Sachs, lo abbiamo
visto alla guida dell'IRI quando fu l'epoca dell'indegna svendita delle
aziende di Stato, fu il privatizzatore delle banche pubbliche Credito
Italiano e Banca Commerciale -, fu persino
chiamato e pagato da George Soros per far parte di una speciale commissione
internazionale di «esperti» costituita per organizzare la vendita delle
aziende di Stato in Russia; una curiosità, che potrebbe anche essere
eloquente: Prodi fu l'unico non ebreo dei sette componenti di quella
commissione.
Ripetutamente lo si ritrova a lavorare nella
direzione indicata dai poteri forti assieme agli altri privatizzatori doc:
Amato, Draghi, Ciampi e compagnia. Diversi poi sono i nomi presenti nell'
attuale governo che ci riconducono al mondo della finanza: Tommaso Padoa
Schioppa (che è stato nella BCE, in Bankitalia, nel
Comitato di Basilea e che è membro nel Gruppo dei Trenta e dell'
Advisary Board dell' Institute for International Economics di
Washington); Enrico Micheli (che è stato vice presidente della Banca di
Roma) e Massimo Tononi (che è passato direttamente dalla Goldman
Sachs al Ministero dell'Economia). A ben guardare si riscontrano anche
curiose parentele: uno dei massimi facitori della nuova super-banca, San
Paolo-Intesa, Pietro Modiano, è il marito del ministro Barbara
Pollastrini, chiamata da Prodi a ricoprire un prestigioso incarico di
governo nonostante non fosse riuscita a farsi eleggere né al Senato, né alla
Camera.
Tutti uomini delle banche, amici o diretti
dipendenti dei centri finanziari internazionali. Tutti ciurma del
Britannia; quei pirati che si sono trovati nel mare di Civitavecchia il
2 giugno del 1992 ad organizzare il saccheggio delle proprietà del popolo
italiano.
D'altronde il governo D'Alema, seguito al
primo governo Prodi nel 1998, si distinse nell'essere ancor più
filo-americano - in economia e in politica internazionale - dei governi di
destra e di centro che lo avevano preceduto.
Fu proprio lui, un comunista entrato a
Palazzo Chigi come presidente, a portare l'Italia in guerra, a fianco degli
USA, contro un paese europeo -la Serbia contravvenendo, per la prima volta
dal 1947, la Costituzione che all' art. 11 recita: «L'Italia ripudia la
guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo
di risoluzione delle controversie internazionali». Fu lui ad autorizzare
il decollo dei nostri bombardieri con destinazione Belgrado ancor prima che
il dibattito su quell'intervento approdasse in Parlamento. Fu lui a
consentire che gli aerei americani usassero come pattumiera per le bombe
inutilizzate e altre «scorie» del genere i laghi e i mari italiani.
E fu ancora lui ad americanizzare il mercato del
lavoro nel nostro Paese, introducendo le assunzioni interinali, e a dare
potenti colpi al già sconquassato Stato Sociale. Un compito che peraltro
oggi Prodi ha già dimostrato di voler portare vigorosamente avanti.
Peraltro, proprio in queste settimane, a far
da contrappeso ai sempre più diffusi dubbi sulle effettive responsabilità
degli attentati dell' 11 settembre 2001, in Italia è sceso in campo, come
avvocato difensore degli USA e dei mondialisti, con la sua rivista
Diario, l'ex direttore di Lotta Continua, Enrico Deaglio.
Appare dunque sempre più chiaro come le
attuali dirigenze «di sinistra» non abbiano più nulla a che fare con le
istanze delle masse lavoratrici, né con la grande utopia marxista, né con la
rivoluzione socialista, e ormai nemmeno con quello spirito genericamente
solidaristico che sembrerebbe essere l'ultimo collante rimasto per aggregare
consensi elettorali. Un falso mito che aiuta a non comprendere e non
accettare quel che realmente avviene. Un mito - siccome l'autocritica è
sempre virtù rara - che riesce ancora a far moda e forse esprime
l'insopprimibile vocazione a rimanere nostalgicamente fedeli a un sogno
giovanile, anche se ormai definitivamente evaporato.
Il cantautore Giorgio Gaber, uomo che scelse
l'intelligenza e la libertà come pilastri della propria esistenza e della
propria produzione artistica, anche quando scomodi e controproducenti per il
successo professionale, in una delle ultime canzoni ha scritto:
«La mia generazione ha visto migliaia di
ragazzi pronti a tutto che stavano cercando
magari con un po' di presunzione di
cambiare il mondo
possiamo raccontarlo ai figli senza alcun
rimorso
ma la mia generazione ha perso».
In realtà, la sinistra in Italia è approdata
al totale ribaltamento delle posizioni politiche, economiche e sociali che
perseguiva all'inizio. Esattamente come quel certo neo-fascismo che, partito
per rappresentare i valori e le proposte politiche dei combattenti della
Repubblica Sociale, si è trovato ad abbracciare posizioni conservatrici,
filo capitalistiche, filo americane, fino a recarsi ripetutamente aTei Aviv,
col capo coperto di cenere... e di kippah, accattonando assurde
legittimazioni e innaturali benedizioni.
Ma, pur non potendo in alcun modo giustificare
involuzioni di tal genere, si possono almeno ricostruire le tappe storiche e
le condizioni ambientali che hanno accompagnato percorsi così insensati e
contraddittori.
I fascismi avevano perduto la guerra e
conseguentemente il potere all'interno delle nazioni sconfitte; i loro
migliori esponenti erano morti in battaglia o per mano partigiana. I
sopravvissuti, sbandati, senza chiari punti di riferimento, hanno vissuto
una diaspora durata decenni e costellata di pesanti difficoltà pratiche e
forti disagi psicologici.
Il neo-fascismo, quello coerente ed autentico
- che è andato via via discostando si da quello parlamentare, sempre più
manifestamente disposto ad abiure, anche sostanziali, pur di garantirsi un
maquillage democratico e una operatività elettorale - ha vissuto un
lungo e difficile periodo di «ritorno alle origini»sviluppatosi soprattutto
con metodi da autodidatta, agglomerazioni elitarie, collocazioni
metapolitiche; testimonianze ideologiche e culturali di enorme importanza,
ma sempre molto lontane dai mezzi di comunicazione. Non è mai riuscito
insomma a raggiungere la pubblica opinione e, quindi, spazi di consenso
popolare. Un patrimonio di analisi, valori e proposte tenuto eroicamente in
vita e - consapevolmente o no - lanciato oltre le trincee del tempo, per
incontrare quelle future generazioni che saranno chiamate a vivere l'epoca
dell'ineluttabile, devastante crisi del sistema mondialista.
Per il comunismo e i variegati
movimenti di sinistra invece le cose sono andate molto diversamente. La
guerra loro l'hanno vinta e sono rimasti al potere indisturbati in tutte le
nazioni già sovietizzate prima del conflitto e, in più, hanno avuto a
disposizione tutta quell' enorme area che gli accordi di Yalta hanno
condannato a sottostare al tallone dell'URSS.
Poi, dopo decenni di potere
incontrastato, un bel giorno, all'improvviso, un gran botto e l'impero
sovietico è imploso.
Non hanno avuto la giustificazione di una
guerra persa, di una carestia, di una pestilenza, di un qualsiasi accidente
estraneo alla propria responsabilità: hanno fatto tutto loro.
Le nazioni del blocco orientale si sono
trasformate in nuovi mercati a disposizione del consumismo e della finanza
internazionale; la gran madre di tutti i proletari del mondo evaporata, il
paradiso comunista sparito, il muro di Berlino abbattuto; ed ora anche in
Cina si respira aria di capitalismo.
D'improvviso un gran botto. E in tutto il
mondo la gran massa di marxisti è rimasta col naso all'insù, in silenzio, lo
sguardo attonito, stretto tra le mani l'ultimo brandello d'utopia, incapace
di comprendere cause, significato e conseguenze di quel cataclisma.
E molti comunisti sono ancora così, nello
stesso stato di stordimento e di inconsapevolezza. E sarebbe ora che
qualcuno riuscisse a farli ragionare e spiegasse loro molte cose che sinora
si sono rifiutati di capire o di accettare. Ad esempio la guerra fredda, che
è stato un enorme bluff organizzato da USA ed URSS a danno di
un'Europa spezzata in due; metà soggiogata dai cingoli dei carri armati
sovietici e l'altra metà convinta che, senza la protezione atlantica,
l'Armata Rossa avrebbe raggiunto Roma, Parigi e Madrid.
D'altronde, quella di far arrivare i sovietici
al centro dell'Europa fu una precisa scelta politica anglo-americana fatta
anche in contrasto con i comandi militari.
"Avremmo dovuto sbarcare nei Balcani. A
quest'ora la Russia non sarebbe a Berlino».
Affermò il generale Mark W. Clark.
Privilegiando l'obiettivo greco a quello italiano; sbarcando a Salonicco
invece che in Sicilia e poi a Salerno e ad Anzio, a guerra finita,
l'influenza sovietica non sarebbe arrivata in Jugoslavia e nelle altre
nazioni balcaniche e sicuramente molte aree dell'Europa orientale sarebbero
rimaste nella sfera occidentale. L'Armata Rossa si sarebbe dovuta fermare
molto più ad Est.
I sovietici invece furono fatti arrivare sino
al centro dell'Europa e, per consentire che la battaglia di Berlino fosse
combattuta e vinta dai rossi, Patton fu trattenuto in Cecoslovacchia.
Da allora gli americani videro
nel blocco sovietico più un complice da aiutare che un concorrente da
combattere. Fuori dal chiasso della propaganda, gli USA hanno fatto di tutto
perché in URSS la crisi economica non scoppiasse prima del dovuto. Le
derrate di grano americano destinate ai porti sovietici non si fermarono
neanche nei momenti più tesi della cosiddetta guerra fredda.
In effetti si è trattato di un teatrino
organizzato ai nostri danni che gran parte della pubblica opinione, non solo
di sinistra, ancora non è disposta a metabolizzare. L'autocritica, torniamo
a ribadirlo, è sempre virtù rara. Una pantomima che ricorda quella
organizzata da Totò in un film degli anni' 50. Facendo finta di litigare con
un «compare», il comico convinceva un turista americano a comprare la
Fontana di Trevi. Più che l'evidenza della finzione valeva l'abilità degli
attori e il folclore della messinscena. Nella realtà, per cinquant'anni, i
«compari» USA e URSS, grazie all'effetto psicologico prodotto dalla guerra
fredda, la fregatura l'hanno affibbiata a noi europei. I sovietici oggi non
esistono più, ma gli americani, nonostante i sessant' anni trascorsi, sono
ancora qui con «armi e bagagli» e non mostrano nessuna intenzione di
andarsene.
Giacché appare chiaro che il vincitore finale
di tutti gli sconvolgimenti avvenuti nel mondo, dallo scoppio della Seconda
Guerra Mondiale ad oggi, sia proprio quella concentrazione di poteri forti
che chiamiamo mondialismo. Banche, grande finanza internazionale, i signori
del denaro che, con il loro codazzo di camerieri sparso in tutto il mondo,
hanno sotteso l'operare dell'Occidente e, più particolarmente, degli Stati
Uniti d'America.
Questa constatazione risulta estremamente
preziosa per offrire una nuova luce alla rilettura di quegli avvenimenti
storici - bellici e post-bellici - che sinora ci erano stati presentati
esclusivamente attraverso la lente deformante della propaganda dei
vincitori. E l'apertura di sempre più numerosi archivi storici, e la
maggiore disponibilità degli studiosi, grazie al lasso di tempo trascorso, a
giudicare quel periodo con maggiore libertà, possono facilitare il compito
di chi vuole affrontare questi argomenti con una certa obbiettività.
E molte questioni, sia pure con una gradualità
a volte esasperante - causata dal fatto che la falsa informazione dei
vincitori ha tutt' altro che smesso di circolare e risulta anzi potenziata
dai sempre più sofisticati sistemi di comunicazione mediatica - cominciano a
prender nuova forma, a mettersi a fuoco, e mostrano di somigliare sempre più
a quella «verità» affermata da quella coraggiosa pattuglia di storici - i
revisionisti - che hanno pagato, e pagano tutt' ora, il prezzo di pesanti
persecuzioni personali per la loro scelta di libertà.
Nonostante rimangano ancora in vigore in molti
paesi europei leggi speciali che pretendono di incanalare entro precisi
paletti la ricerca storica e colpiscono penalmente chi invece ritiene la
libertà di opinione e di espressione un inalienabile diritto dell'uomo,
oggi, nonostante ciò, qualcosa di diverso si comincia a intravedere e
qualcosa di più si riesce a comprendere.
È un po' come in una mattina autunnale, quando
piano piano si dirada la nebbia e prima appare un panorama indefinito,
ovattato, poi, con sempre maggiore chiarezza, si scorgono le linee che
definiscono le figure e infine i dettagli. Solo a questo punto ci si rende
conto che prima il panorama lo si era solo immaginato, fidandosi
dell'interessato racconto di altri e, soprattutto, lavorando molto di
fantasia.
Numerosi dubbi stanno emergendo sul fatto che
sia stata proprio la Germania a volere uno scontro mondiale. Se, ad esempio,
Ciano non avesse sbandierato ai quattro venti la decisione di Mussolini di
non partecipare al conflitto, Gran Bretagna e Francia, il 3 settembre 1939,
avrebbero presentato la dichiarazione di guerra alla Germania? Se fossero
stati convinti che le forze dell' Asse, automaticamente - come stabilito nel
Patto d'Acciaio - avrebbero fatto fronte comune, inglesi e francesi
avrebbero mandato i propri soldati a come si diceva allora - «morire per
Danzica» ?
E poi, a lasciare perplessi ci sono parecchie
cifre e la corsa agli armamenti. La Germania disponeva di un quarto
delle risorse - alimentari, energetiche e di materie prime - della Gran
Bretagna, un quarto di quelle statunitensi, metà di quelle sovietiche.
Nel 1939 gli inglesi avevano 26
squadriglie aeree contro le cinque dell'anno precedente; una produzione di
3.000 aerei contro i 1.600 tedeschi destinata ad assegnare alla Gran
Bretagna una superiorità in progressivo aumento; 15.000 aerei contro 7.000
nel '40 e 20.000 contro 8.000 nel '41. Gli effettivi di terra inglesi si
incrementarono dal '39 al ' 40 dell' 80%, mentre quelli tedeschi solo del
25%. La leva obbligatoria è stata introdotta in Gran Bretagna nel 1939.
Nello stesso periodo in Francia la leva è portata da un anno a diciotto mesi
e poi a due anni.
Per ciò che riguarda il potenziale marittimo,
la sproporzione risulta ancor più evidente e significativa: tra corazzate,
portaerei, incrociatori e cacciatorpediniere, nel 1939 la Germania disponeva
di 33 navi contro le 85 della Francia, le 270 dell'Inghilterra e le 270
degli USA.
Quando Hitler dette il via alla
campagna contro l'Unione Sovietica, la Germania riuscì a mettere in campo
3.500 carri armati e 2.000 aerei. Ebbene, nel solo 1942, gli americani
costruirono 45.000 carri armati e 60.000 aerei.
Tutta l'escalation bellicista messa in
atto dagli Stati Uniti in direzione antitedesca ancor prima del '39 -
nonostante fino a tutto il '41, si fossero ufficialmente dichiarati neutrali
- sta a dimostrare quali fossero gli interessi che premevano verso un
conflitto mondiale contro quell'Europa che si ostinava a proporre modelli
socio-politici alternativi a quelli tipici delle demoplutocrazie e
riconoscersi in valori di segno opposto a quelli già dominanti negli USA,
del profitto e del consumismo.
Oggi che sul campo è rimasto un solo
vincitore, è più agevole riconoscere il vero significato di quell'immane
scontro: una scelta di campo, di valori, di concezioni della vita. Da una
parte il denaro, la ricchezza, le banche, i battitori di moneta, dall'altra
lo spirito più autentico dell'Europa, i contenuti delle sue millenarie
civiltà e la libertà dei suoi popoli.
Lo avevano compreso con lucidità i capi
dell'Italia e della Germania; lo avevano inteso numerosi esponenti delle
emergenti classi dirigenti, come, per rimanere in Italia, i Giani, i
Pallotta, i Ricci, i Mezzasoma, i Pavolini.
Lo aveva visto con estrema chiarezza, nella
purezza della sua intuizione poetica, Ezra Pound:
«Contro natura
Ad Eleusi han portato puttane
Carogne crapulano
ospiti d'usura»
E da questa profonda consapevolezza derivò la
sua netta scelta di campo che gli procurò pesantissime, inaudite conseguenze
da parte dei nuovi barbari, delle «carogne» vittoriose. L'aver compreso e
denunciato con passione e chiarezza ciò che non si doveva sapere gli costò
assai caro.
Quello che molti ritengono sia stato il più
grande poeta del XX secolo, fu rinchiuso in una gabbia di ferro nel campo di
concentramento di Coltano, tra Pisa e Livorno, esposto al sole, al freddo,
alla pioggia, di notte illuminato da fari accecanti; fu poi recluso per
tredici anni negli USA, in un manicomio criminale, in una cella priva di
finestre. In tutto il mondo continuavano ad essere pubblicate le sue opere e
ad essergli conferiti premi letterari. La Corte Suprema statunitense fu
bersagliata da ricorrenti appelli per la liberazione del poeta, provenienti
sia dall'Europa che dalla stessa America, presentati dai più prestigiosi
nomi del mondo culturale. L'ultimo aveva, tra i primi firmatari, Thomas S.
Eliot, Robert Frost, Archibald MacLeish e Ernest Heminguay. Solo il 18
aprile del 1958 la Corte decise di dar fine a questo incancellabile crimine.
Grande lucidità dunque in Pound e profonda
consapevolezza del suo periodo storico. Anche se i soldati che combattevano
e i cittadini che vivevano quei tempi raramente, come spesso accade,
avvertivano la portata globale e il significato autentico di quegli
avvenimenti.
Anche se si cantava:
«Contro Giuda, contro l'oro
sarà il sangue a far la storia»
e ancora
«Europa insorgi! Sulle tue rovine
la Patria fonderemo proletaria,
Europa non sarai più tributaria
dell' oro, ma del popolo fedeli»
i combattenti della Repubblica Sociale
mettevano in gioco la propria vita soprattutto per l'onore, la coerenza, la
fedeltà a una bandiera. Il peso della finanza internazionale non lo avevano
ancora conosciuto direttamente. L'America era ancora lontana.
Molti ufficiali tedeschi sopravvissuti, che ho
avuto occasione d'incontrare, alle mie domande circa il significato della
Seconda Guerra Mondiale hanno parlato della questione dei Sudeti, di
Danzica, della lotta al bolscevismo.
Ma l'aggressione mortale lanciata dalle forze
mondialiste incombeva, pur se talvolta inconsciamente, su tutti. Ne troviamo
ricorrente traccia, oltre che negli inni, nei libri, nei giornali, nelle
trasmissioni radiofoniche, negli studi universitari e nei manifesti di Gino
Boccasile.
Oggi, dopo il crollo del muro di Berlino e
l'implosione dell'impero sovietico, i dubbi su quale fosse stato l'autentico
motore scatenante il secondo conflitto mondiale si sono moltiplicati.
Inoltre, anche se le forze dell' Asse erano
impreparate a una guerra di così ampia portata, malgrado lo squilibrio delle
risorse e dei mezzi, l'esito finale degli eventi risultò, quasi sino alla
fine, estremamente incerto. Nonostante l'opera distruttrice dei
bombardamenti anglo-americani - 2.615.000 tonnellate di esplosivo scaricate
sulle città europee - non è sul piano della capacità di resistenza dei
nostri popoli che la guerra si è persa.
Al contrario della potenza delle
incursioni terroristiche operate dal cielo, le azioni di terra mostrarono
nelle truppe anglo-americane goffaggine, scarso valore, tendenza
all'insubordinazione. Ben diversamente dalla rappresentazione che ne è stata
fatta dall'industria di Hollywood, gli «alleati» non hanno certo vinto per
merito dei propri soldati. E la storia ha continuato a ripetersi anche nei
decenni successivi: quando si è passati dai bombardamenti alle azioni di
terra sono stati sempre guai: in Vietnam, in Afghanistan, in Iraq.
Brucia ancora ai britannici la resa, a
Singapore, di 138.000 loro soldati ai pochi contingenti nipponici del
generale Yamashita nel febbraio del 1942. Churchill parlò, senza mezzi
termini, di «scandalo militare». E che dire, pochi mesi dopo, dei
35.000 inglesi che si consegnarono, a Tobruk, nelle mani di Rommel ?
Ovviamente nessun film ha celebrato
l'ammutinamento dei tremila soldati britannici che a Salerno si rifiutarono
di proseguire la salita dell'Italia contro i tedeschi; riuniti sulla
spiaggia, seduti sulla sabbia, presero a sassate gli ufficiali che volevano
convincerli a rientrare nei ranghi.
Quando gli americani, all'alba del 22 gennaio
1944, approdarono ad Anzio, si trovarono di fronte uno schieramento di forze
dell' Asse più debole del previsto; Kesselring, che aveva a disposizione sei
divisioni e quattro battaglioni di fanteria, era convinto che lo sbarco
sarebbe avvenuto a Livorno e aveva spostato il grosso verso Nord. La
Repubblica Sociale si era costituita da poco più di tre mesi e in fatto di
truppe addestrate non poteva certo dare un gran contributo.
I numeri sono quindi a favore degli
americani in un rapporto di tre a uno e il potenziale di fuoco in un
rapporto di dieci a uno. Ora, per percorrere la cinquantina di chilometri
che conducono da Anzio a Roma la quinta Armata americana del generale Clark
ci mise più di quattro mesi, subendo perdite quantificate in 52.130 uomini.
Nel dicembre del 1944 le divisioni
tedesche, ormai costituite solo da ragazzi diciassettenni della
Hitlerjugend, attaccarono gli americani sul fronte delle Ardenne. Si
respirava già aria di «guerra finita» e non era nemmeno più il caso di
parlare di rapporto di forze. Ebbene, 9.000
uomini della 106" Divisione statunitense si arresero in blocco e, in pochi
giorni, tra gli americani si contarono 16.000 caduti e 100.000 tra
prigionieri e disertori; in 25.000 si procurarono ferite per non proseguire
il combattimento. E questi sono solo flash scattati a caso tra i
mille analoghi che si potrebbero ricordare.
No, non si può certo affermare che l'esito
della guerra fosse scontato grazie al valore degli eserciti anglo-americani.
E nemmeno si può parlare di un divario scientifico e tecnologico
svantaggioso per il nostro continente, giacché, nonostante la sproporzione
dei mezzi, in Italia e Germania si correva molto più che in America. Si è
saputo dopo quanto il tanto sbandierato progresso americano fosse solo il
risultato del saccheggio di scienziati e tecnici perpetrato in Europa a fine
guerra. Valga ricordare, tra tutti gli esempi, la conquista dello spazio e
il ruolo di Wernher von Braun; il frenetico sviluppo delle telecomunicazioni
e il ruolo avuto da Guglielmo Marconi e dalla nutrita schiera di fisici e
ingegneri elettromagnetici che hanno operato in Italia nei primi decenni del
XX secolo.
Non poteva ritenersi decisiva nemmeno la
questione della bomba atomica. Innanzitutto perché le inutili carneficine di
Hiroshima e Nagasaki furono effettuate a guerra finita - i giapponesi
avevano chiesto già due volte di arrendersi e l'intendimento statunitense
era stato solo quello di creare a proprio vantaggio un deterrente da
sfruttare in tempo di pace. Poi perché la ricerca atomica anche questa - era
nata in Europa e non in Texas.
Non era quindi ineluttabile che si arrivasse a
realizzare quell' ordigno nel deserto americano anziché nel Terzo Reich. E,
infine, perché gli stessi scienziati che sono considerati i padri della
bomba, fino agli esperimenti pratici finali, eseguiti nel deserto di
Alamogordo in New Mexico, ignoravano il potenziale di quella esplosione e le
sue conseguenze; quindi la possibilità di un suo efficace impiego militare.
L'aneddoto che segue è in questo senso molto
eloquente, oltre a rappresentare un preoccupante esempio dell'estremo
cinismo americano ed anche della mentalità di un certo tipo di scienziati.
Fermi ed Oppenheimer, mentre si preparava la
prima esplosione, fecero il giro di tutti i presenti raccogliendo un dollaro
a testa per scommettere sull'esito dell'esperimento. Le opzioni erano:
fallimento completo; un botto equivalente a una bomba di trecento tonnellate
di tritolo; un'esplosione molto maggiore, pari a diverse migliaia di
tonnellate; la distruzione totale del New Mexico; quella di tutti gli Stati
Uniti d'America; l'incendio totale dell'atmosfera della terra.
No, nemmeno la questione atomica può
puntellare il mito dell'ineluttabilità dell' esito finale.
Lo stesso Fermi, giunto negli Stati Uniti
dall'Italia, era convinto che le forze dell' Asse avrebbero potuto vincere.
Molti altri ebrei in fuga dall'Europa, arrivati in America, si ribellarono
alla prassi di prender loro le impronte digitali: «se vinceranno i
tedeschi» affermavano «useranno queste impronte per rintracciarci e
ucciderci tutti». Erano dunque convinti che la sconfitta degli
angloamericani fosse tutt'altro che un'ipotesi peregrina.
* * *
Diversamente da quanto affermato nel
dopoguerra, Mussolini e Hitler ricevettero numerose e significative
attestazioni di stima da parte degli uomini di cultura e degli statisti di
allora.
Lenin e Trotzki se la presero con i
socialisti italiani, rei di avere espulso quel Benito Mussolini che, secondo
loro, era l'unico uomo capace di realizzare una rivoluzione in Europa. Il
mondo della cultura riservò al dittatore italiano consensi entusiasti: da
Ungaretti a Soffici, Prezzolini, Pirandello, Pareto, Papini, Mascagni, per
non parlare di D'Annunzio e Marinetti. Ed anche all'estero, come nei casi di
Le Corbusier, Stravinskij e George Bernard Shaw. Al Duce del fascismo
giunsero giudizi lusinghieri da ogni parte del mondo, compresi i futuri
nemici Chamberlain e Churchill. Il Mahatma Gandhi definì Mussolini un
«superuomo». Un Papa, Pio XI, lo chiamò «uomo della Provvidenza»
e un altro, Pio XII, «il più grande uomo da me
conosciuto».
Anche il Fuehrer del nazionalsocialismo
ricevette significativi apprezzamenti dagli statisti a lui contemporanei;
basti ricordare il presidente americano Herbert Hoover e, in Gran Bretagna,
il monarca Edoardo VIII e il primo ministro David Lloyd George.
A distanza di tempo si può affermare che tra i
grandi estimatori di Hitler ci fu anche il suo acerrimo e, come vedremo,
decisivo antagonista: il capo dell'Unione Sovietica, Josif Stalin.
Ben lontano dal giudicare il Flihrer un
visionario o un pazzo, lo temette più di qualsiasi altro avversario e, a
guerra finita, tardò molto a credere che fosse veramente morto. Ordinò
numerose inchieste tendenti a verificare i particolari del suicidio e per
due mesi non consentì agli anglo-americani di visitare il cortile della
Cancelleria, a Berlino, dove, nei pressi dell'uscita del bunker, erano stati
cremati i corpi di Hitler e di Eva Braun.
Il capo dell'Unione Sovietica era affascinato
dalla personalità di quell'uomo, al punto di volerne conoscere anche i
tratti meno noti. Stalin, a tal fine, fece arrestare i due uomini che più di
tutti negli ultimi anni erano vissuti a strettissimo contatto con il capo
del Terzo Reich: Heinz Linge e Otto Gunsche. Linge era stato al servizio di
Hitler dal 1939, prima come attendente, poi come capo del personale di
servizio. Gunsche era stato negli ultimi due anni aiutante personale del
Fuehrer.
Furono chiusi ognuno in una cella
d'isolamento, piena di cimici, senza la possibilità di vedere anima viva.
Investigatori interrogavano, tutti i giorni, i due prigionieri usando spesso
le stesse domande poste in ordine diverso per indurli a cadere in
contraddizione e controllare la veridicità delle risposte con il metodo del
riscontro incrociato. E poi, Linge e Gunsche dovevano ricordare tutto ciò
che avevano affermato nella giornata, e metterlo per iscritto.
Il giorno dopo si ricominciava daccapo. Questo
trattamento durò quattro anni, durante i quali i due testimoni furono anche
riportati a Berlino per rispondere alle stesse domande nei posti degli
avvenimenti; per indicare nuovamente, a distanza di tempo, il luogo dove
avevano bruciato i cadaveri di Hitler e Eva Braun. Linge in seguito disse di
essere giunto alla disperazione e di avere avuto paura di superare il
confine che porta alla follia.
Furono liberati nel 1955 insieme agli ultimi
prigionieri di guerra detenuti nell'Unione Sovietica.
A conclusione di queste puntigliose e
interminabili indagini si ebbe un dossier ampio, dettagliato che, redatto in
413 pagine, fu consegnato a Stalin il 29 dicembre 1949. Il dittatore lo
lesse e rilesse con attenzione e lo collocò nel suo studio personale. Ancora
oggi è conservato nell' archivio del Presidente della Repubblica della
Russia, dove non è accessibile ai ricercatori di altre nazioni.
Ma Nikita Chruscev ne aveva fatto fare una
copia che fece collocare negli archivi del partito dove, confuso tra
migliaia di altri documenti, è rimasto ignorato sino a poco tempo fa quando
lo ha rintracciato lo storico Matthias Uhl. In Italia, tradotto da Andrea
Casalegno, è stato pubblicato l'anno scorso dall'UTET.
Documento redatto con la evidente,
condizionante preoccupazione di non risultare sgradito al committente -
Stalin - si rivela ugualmente ricco di dettagli, sfumature, rivelazioni
ambientali e personali, precisazioni sugli incontri dei vertici tedeschi,
sulle decisioni strategiche, sul come fu vissuta la sconfitta, dalle prime
avvisaglie alla tragica fine. Tutto materiale prezioso per chi svolge
indagini storiche e vuole continuare a farlo all'insegna della libertà di
ricerca, di opinione e di espressione.
* * *
Se non furono l'efficienza, le qualità e lo
spirito degli eserciti anglo-americani a segnare la differenza e determinare
l'esito del conflitto, sarà opportuno focalizzare il dove e il quando gli
avvenimenti presero una direzione opposta a quella dell'inizio della guerra,
che era stata decisamente favorevole alle forze dell' Asse.
Qual è stato il fronte nel quale le armate del
Reich sono state fermate e le previsioni di Hitler contraddette dai fatti? È
ad Est che bisogna guardare, agli esiti dell'Operazione Barbarossa e,
quindi, all' Armata Rossa.
Ma l'esercito sovietico non era certo
più valoroso, o meglio addestrato di quelli anglo-americani. Anzi, le
testimonianze e le ricerche storiche sinora effettuate ci descrivono una
massa di impreparati, di incapaci, di disperati più votati alla morte che al
combattimento. Nel luglio 1941 il capo di stato maggiore Franz Halder
scrisse: «I sovietici fanno avanzare i loro uomini
in contrattacco, senza il minimo appoggio di artiglieria, anche in dodici
ondate una dopo l'altra. Spesso sono reclute inesperte che si prendono fra
loro sottobraccio e, con i moschetti ancora a tracolla, caricano le nostre
mitragliatrici, spinti dal terrore dei commissari politici e dei loro
ufficiali. La superiorità numerica è sempre stata la forza dell'URSS, e
adesso il comando sovietico ci sta costringendo a massacrare quei poveracci
che nulla fanno per evitare la morte».
Le cifre che, col passare degli anni e con
l'accesso agli archivi, divengono sempre più precise, ci indicano un
rapporto di caduti in battaglia impressionante: 8-10 soldati sovietici per
ogni tedesco.
Quando la XX Armata del generale Andrej
Vlassov viene bloccata ad ovest del Volchov, cominciano a scarseggiare
viveri e rifornimenti. Succede di tutto; i soldati dimostrano di non
possedere nessuna capacità di tenuta e, in breve, dilagano casi di
cannibalismo, suicidi, diserzioni; a gruppi gettano le armi e si arrendono
ai tedeschi. Lo stesso Vlassov, rimasto isolato, si nasconde in una
fattoria, ma il contadino si affretta a denunziarne la presenza ai tedeschi;
vestito di cenci, con voce flebile e sguardo terrorizzato, il generale è
condotto di fronte al comandante della XVIII Armata tedesca, generale
Lindemann.
E tutto ciò non avvenne solo per merito dei
soldati tedeschi; anche in Finlandia si era verificata la stessa cosa: il
rapporto dei morti tra sovietici e finlandesi è anche qui di 8 a 1. La prima
campagna contro quella piccola nazione - novembre 1939, marzo 1940 - costò
alla Russia, secondo le varie fonti, da 400.000 a un milione di uomini. La
cifra più alta è quella fornita da Nikita Chruscev nelle sue memorie.
I soldati dell'esercito sovietico scappavano,
venivano colpiti e cadevano come mosche; le Armate si disperdevano, si
dissolvevano, eppure i tedeschi ne incontravano sempre di nuove, altre masse
di soldati a sbarrar loro la strada. Nelle memorie di un ufficiale tedesco
impiegato a nord di Mosca si legge: «L'offensiva nemica che avanzava
sulla neve era formata da successive ondate di immensi reparti. Le nostre
mitragliatrici sparavano senza sosta, al punto che non riuscivamo neppure a
udire le nostre stesse voci. Davanti a noi, sulla neve, si stendeva
uno scuro e macabro tappeto di morti e di moribondi, ma quelle masse di
umanità continuavano ad avanzare, sempre più vicine, come se fossero
inesauribili. Gli ultimi sovietici cadevano sotto i colpi delle
nostre mitragliatrici solo quando erano a portata delle bombe a mano. Ma
subito dopo, mentre i nostri mitraglieri cercavano di riprendere
fiato, ecco in distanza qualcosa che si muoveva, una spessa linea
scura sull'orizzonte. E tutto ricominciava» .
Il generale Ferdinand Schorner,
comandante del Gruppo Armate Nord scrisse a Hitler:
«I bolscevichi diventano più inetti giorno dopo giorno. I
prigionieri catturati recentemente vanno dai ragazzi di quattordici anni ai
vecchi. E la cosa più sbalorditiva è continuare a vedere avanzare queste
animalesche orde di esseri umani».
Durante lo scontro tedesco-sovietico i
russi ebbero perdite medie che si aggirano sui 25.000 uomini al giorno. In
totale ne morirono undici milioni. Trenta milioni furono i feriti, i
congelati e i mutilati: di questi, diciassette milioni furono rimessi in
servizio e rimandati al fronte.
L'Armata Rossa fu distrutta cinque volte, e
cinque volte ricostituita. Alla fine i sovietici mobilitati risultarono
circa trentacinque milioni. Quando cominciò a scarseggiare l'elemento umano
i soldati furono rimpiazzati con i feriti, con le donne, con le reclute
asiatiche prive di ogni addestramento o qualità militari.
Ad ogni battaglia vinta cresceva l'ottimismo
tra i vertici tedeschi. Scriveva Goebbels nel marzo 1943: «/ russi stanno
già chiamando alle armi le classi 1926, il che prova che hanno subito
perdite gravissime nel loro materiale umano» .
Ma poi, puntualmente, la doccia
fredda: «Le divisioni sono sempre lì: ne distruggiamo una dozzina, ne
compaiono altre dodici nuove» scrive nel suo diario di guerra il
maggiore generale Franz Halder. L'Armata Rossa è come l'Idra dalle mille
teste, più ne tagliano più ne ricrescono. «Abbiamo
cominciato la guerra affrontando 200 divisioni nemiche, siamo già a 360».
Il 2 agosto 1942 il capo dell'Est dei servizi
segreti dell'esercito tedesco, colonnello Gehlen, fece sapere che nel solo
mese di luglio Stalin aveva messo in campo 54 nuove divisioni di fanteria e
56 nuove divisioni corazzate.
Anche in Hitler lo stupore cresceva col
passare dei mesi: «Dove prendono questa forza i russi? Secondo i miei
calcoli dovrebbero essere senza fiato da un pezzo. Non lo capisco»,
affermò nel febbraio del 1943. Ciò nonostante era a conoscenza delle perdite
sovietiche - in un documento nemico intercettato si quantificavano in
11.200.000 tra morti, dispersi e feriti - e la logica lo induceva a credere
che questo ricreare armate che puntualmente venivano distrutte, prima o poi
dovesse finire. «Non dobbiamo pensare che questo
esercito sovietico sia una specie di gigante medioevale che diventa più
forte ogni volta che cade a terra. Un giorno anche la sua forza finirà».
Ma, alla mancanza di qualità,
addestramento, eroismo, faceva da contrappeso il terrore che Stalin incuteva
e che, attraverso la fitta rete di commissari politici, teneva vivo e
costante in ogni settore della vita civile e presso ogni reparto dell'
Armata Rossa. Un terrore presente anche a livello di vertice. L'assistente
militare di Churchill, generale Ismay, che si recò a Mosca nel 1941, riferì
che «quando Stalin entrava nella stanza tutti i
russi si irrigidivano in silenzio e lo sguardo di belve braccate negli occhi
dei generali dimostrava fin troppo chiaramente il terrore costante in cui
vivevano. Era una cosa nauseante vedere degli uomini valorosi ridotti in un
tale stato di asservimento».
Per i soldati, l'essersi arresi ai tedeschi
voleva dire automaticamente esser segnati sul libro nero. I reduci dai campi
di prigionia erano sospettati di tradimento: alcuni venivano rimandati al
fronte nei Strafnoi batal' on, i battaglioni di punizione dell'
Armata Rossa cui erano affidate le missioni suicide; il grosso finì
fucilato, altri furono mandati nei Gulag. Chi sopravvisse a quell' inferno
fu liberato solo dopo la morte di Stalin.
Accusati di non aver svolto attività
partigiane durante l'occupazione tedesca, furono falcidiate intere
popolazioni di caucasici, uzbeki, bielorussi, baltici, estoni, lituani,
russi e ucraini. Questi ultimi, già nel
biennio 1932-33, avevano subito dai bolscevichi un genocidio di sette
milioni di persone e la deportazione in campo di concentramento di altri due
milioni.
Il numero delle vittime delle purghe
staliniane raggiunse cifre da capogiro; molte ricerche storiche sono
arrivate a contarne fino a trenta milioni. Durante la conferenza di Yalta,
Stalin si vantò con Churchill di aver fatto uccidere, solo tra i contadini,
oltre dieci milioni di esseri umani.
Per terrorizzare le popolazioni coinvolte
direttamente nella guerra, Stalin nell'àmbito della politica della terra
bruciata - escogitò anche uno stratagemma di rara ferocia: costituì dei
gruppi speciali che, travestiti da tedeschi, andavano a mettere a ferro e
fuoco paesi vicini al fronte; le popolazioni venivano trucidate; si lasciava
in vita solo qualche individuo perché facesse da testimone e propagandasse
l'odio per il tedesco occupante.
Questo ordine di Stalin, sinora poco noto, che
pubblichiamo integralmente nella pagina accanto, è stato rintracciato
nell'archivio nazionale di Washington.
I civili poi, in generale, pagarono il clima
bellico con privazioni di ogni tipo. Vi furono in molte zone casi di
cannibalismo; particolarmente si ricordano quelli di Leningrado, durante
l'assedio. Nel mercato di Kujbysev si vendeva carne umana, facendola passare
per carne di maiale macinata.
Tra morti in guerra, morti per fame,
vittime delle purghe staliniane, le conseguenze per il popolo russo furono
devastanti. Circa 38 milioni è stata la sottrazione demografica accorsa alle
nazioni dell'URSS, una cifra pari a quella dell'intera popolazione francese
all'epoca di Napoleone III ed equivalente al 22% della popolazione sovietica
del 1940.
Nei conteggi degli storici spesso si è
arrivati anche a cifre più elevate. Franco Bandini, nel suo ultimo libro -
pubblicato postumo nel 2005 - probabilmente grazie alla possibilità che ebbe
di attingere a dati più completi e aggiornati, arriva a scrivere di un
«buco reale di circa 60 milioni di russi».
La decimazione fu ovviamente, a netta
prevalenza, maschile. Tra i russi, a guerra finita, si ebbe un disavanzo tra
donne e uomini come non si è avuto, nella storia recente, in nessun popolo.
Nel 1959 si registrava ancora un esubero di 21 milioni di donne rispetto al
numero degli uomini. E questo procurò non poche conseguenze:
dall'importazione di popolazioni maschili dell'Est al ripetuto tentativo di
legalizzare la bigamia. Per molti aspetti la femminizzazione della
popolazione russa si è cronicizzata e ha provocato profonde mutazioni nel
costume e nella morale popolare.
Lo scrittore Fedor Abramov pubblicò nel 1968
un racconto nel quale riferì,piuttosto fedelmente, la storia di un villaggio
del nord della Russia, lungo il fiume Pinega. Una storia simile a quella
degli innumerevoli altri villaggi sparsi a nord, est e ovest di Mosca.
Durante la guerra la campagna si svuotò di
uomini, dato che l'Armata Rossa era costituita soprattutto di contadini, e
la mano d'opera fu sostituita con quella delle donne, dei vecchi, degli
adolescenti e dei bambini. Vivere in quel posto divenne molto duro. Si
mangiava di meno, ci si ammalava più spesso, sovente si moriva. La speranza
era quella che, a guerra finita, le cose potessero tornare come prima.
Ebbene, da quel villaggio erano partiti un centinaio di uomini: ne tornarono
tre; uno mutilato, uno debilitato da una lunga prigionia e solo uno in
salute.
* * *
Nelle memorie del maresciallo
dell'Unione Sovietica V. D. Sokolovskij, il capitolo dedicato alla conquista
della capitale del Terzo Reich comincia così:
«Vincendo la tenace resistenza delle truppe tedesche, il primo fronte
bielorusso avanzava verso Berlino».
Sino alla fine, dunque, la caratteristica
dello scontro russo-tedesco rimane immutata. Un dispiegamento di uomini e
mezzi impressionante contro un numero di soldati molto inferiore, ma ben
addestrati, valorosi e determinati. Anche quando, giunti al ripiegamento
totale, con scarsità di mezzi e senza più prospettive di vittoria, le
potenzialità dell'esercito tedesco avrebbero dovuto essere ancor più
ridotte.
Contro Berlino i sovietici si muovono con 20
armate, 150 divisioni 2.500.000 uomini (le fonti sovietiche riportano
addirittura la cifra di 3.500.000) - più di 50 mila cannoni e mortai, 8.000
carri armati e pezzi d'artiglieria semoventi corredati di 7 milioni di
granate, oltre 4 armate aeree: 8.400 apparecchi.
Berlino, città martoriata di giorno e di notte
dai bombardamenti aerei - il centro era distrutto dal 50 al 75% - era
irriconoscibile; molte strade erano sparite. Ci si muoveva lungo stretti
camminamenti ricavati tra le montagne di macerie. Delle case rimanevano
spezzoni, scheletri di muri sinistramente illuminati dagli incendi che
divampavano senza sosta. Una colonna di fumo, densa, scura, enorme, si
ergeva sopra la città, ondeggiando come un lugubre drappo visibile ad oltre
cento chilometri di distanza.
Berlino era difesa da 300.000 uomini di cui
solo 90.000 all'interno della città. Molti di costoro erano ultrasettantenni
o giovani tra i 12 e i 15 anni. La popolazione si era ridotta a 2.700.000
abitanti, di cui 2.000.000 donne.
Nonostante tutto, incredibilmente, era ancora
una città viva: funzionavano i mezzi pubblici, la metropolitana, la posta,
la nettezza urbana, erano aperti cinema, teatri e ristoranti. I giornali
uscivano, il 65% delle imprese funzionavano e 600.000 berlinesi andavano al
lavoro ogni mattina. Nelle officine di Spandau uno dei dodici quartieri di
Berlino - si fabbricavano a pieno ritmo granate e munizioni. La Siemens di
Siemensstadt continuava a produrre materiale elettrico; nelle fabbriche di
Marienfelde, da Weissensee ed Erkner uscivano ancora grandi quantità di
cuscinetti a sfere e macchine utensili; la Rheinmetall-Borsig di Tegel
fabbricava bocche da fuoco e affusti di cannone; carri armati, autocarri e
semoventi uscivano dalle catene di montaggio di Alkett e Ruhleben.
Il 16 aprile 1945 si scatenò l'offensiva
finale. Il generale Konev spingeva da sud; il generale Zukov da nord-est:
come un «leone inferocito» - così lo definì il generale Popiel- urlò
agli ufficiali e a quei soldati che gli stavano più vicino:
«Prendete Berlino!».
Ma, nonostante la macroscopica differenza di
mezzi, di uomini e di munizioni, l'avanzata dei russi stenta a procedere. Ci
vogliono due interi giorni d'inferno, d'ininterrotta pioggia di granate e
proiettili, di fiumi di fuoco, per riuscire a forare le prime due linee di
resistenza tedesca fuori Berlino.
«Siamo bloccati!»
esclamò il generale Ivan Yushchuk al colonnello generale
Mikhail Katukov, comandante della prima armata corazzata che, rivolto ai
propri ufficiali si sfogò: «Questi diavoli di
hitleriani! Non ho mai visto una resistenza simile in tutta la guerra».
Lo storico sovietico A. Jerusalimskij
nel suo diario di guerra, il 26 aprile, dopo dieci giorni di offensiva,
scrisse: «Le truppe tedesche continuano a resistere
furiosamente».
Goebbels, nel suo ultimo messaggio ai
berlinesi e ai soldati posti alla difesa della capitale, trasmesso
attraverso l'organo ufficiale del partito - Volkischer Beobachter -
incitava: «Stringete i denti! Combattete come
diavoli! Non cedete un palmo di terreno! L'ora decisiva esige l'ultimo e più
grande sforzo!».
I tedeschi ubbidirono. Nonostante la guerra
fosse palesemente arrivata a conclusione, nonostante la vita nelle ultime
settimane si fosse svolta all'insegna delle più pesanti privazioni,
nonostante la distruzione delle case, nonostante lo sconforto, i tedeschi
ubbidirono.
Il rapporto di perdite sovietiche per ogni
combattente germanico caduto a Berlino fu ancor più pesante di quello
riscontrato nel corso dell'Operazione Barbarossa.
I difensori della capitale - molti i volontari
giunti da tutta Europa - prendono velocemente dimestichezza con i
lanciarazzi controcarro Panzer-faust; i carri armati che tentano di
affacciarsi sulla Kurfurstendamm sono colpiti e vanno in mille pezzi.
L'Alexanderplatz per diversi giorni continua ad essere imprendibile. Ad
Hallensee cinque carri T-34 vengono distrutti da ragazzi in pantaloni corti,
che poi vanno al contrattacco riconquistando il quartiere, casa dopo casa,
piano dopo piano, stanza dopo stanza.
Ovunque ci sono focolai di resistenza.
Lo Hochbunker, la torre di difesa antiaerea dello Zoo, rimane inespugnabile
sino alla fine. Un soldato che vi si era rifugiato poi riferì: «Avevo tre
anni di fronte sul groppone, tuttavia rimasi terrorizzato dal rimbombo dei
pezzi da 88 nella cassa di risonanza del
cemento armato. I civili invece non battevano ciglio».
Due milioni e mezzo, e forse più, di uomini
armati fino ai denti, per entrare in una città distrutta e difesa da 90.000
combattenti: furono obbligati a procedere passo passo e impiegarono due
lunghe settimane. La bandiera rossa fu issata sul Reichstag solo la notte
del 10 maggio. Hitler si uccise nel bunker della Cancelleria il 30 aprile.
Ciò nonostante, i berlinesi continuarono a combattere per altri due giorni.
Diverse città resisterono ancora più a lungo.
I russi riuscirono a entrare a Breslavia solo il 6 maggio, lasciando sul
terreno, tra morti e feriti, 60.000 loro soldati.
L'Armata Rossa pagò per l'operazione Berlino
un prezzo enorme. Le truppe che entrarono nella capitale tedesca avevano
lasciato alle proprie spalle perdite che sono state complessivamente
quantificate nella cifra di 304.887 uomini.
Il maresciallo Zukov aveva aizzato i
propri uomini a scatenare ogni istinto violento:
«Soldato sovietico vendicati! Comportati in modo tale che non soltanto i
tedeschi di oggi, ma i loro lontani discendenti tremino ricordandosi di te.
Tutto ciò che appartiene al sottouomo germanico è tuo. Soldato sovietico,
chiudi il tuo cuore a ogni pietà».
E i rossi si scatenarono: solo dentro Berlino
100.000 donne furono violentate; 10.000 fino alla morte. I berlinesi furono
aggrediti, derubati, uccisi; 6.400 sono risultati i suicidi per
disperazione.
A guerra finita, quando le popolazioni non
ebbero più uomini in armi a difenderle, i popoli vinti subirono massacri e
violenze senza precedenti.
Tre milioni furono i morti, prevalentemente
donne, vecchi e bambini - il triplo di quelli che erano stati uccisi dai
bombardamenti anglo-americani - nelle popolazioni costrette all'esodo dalle
regioni orientali dopo l'8 maggio 1945. Un esodo di 16.500.000 tedeschi; una
cifra equivalente a quella degli abitanti di Norvegia, Svezia e Finlandia
messi assieme.
La sorte dei soldati tedeschi
sopravvissuti alla guerra non fu migliore. In 3.242.000 morirono nei campi
di concentramento; due milioni in quelli sovietici, un milione in quelli
americani, 242.000 in quelli francesi, jugoslavi, polacchi e cechi.
Otto milioni di persone abbandonarono le loro
case in Prussia, Pomeriana e Slesia per fuggire dall' Armata Rossa e
rifugiarsi nei territori occupati dalle truppe anglo-americane.
Il terrore suscitato nelle popolazioni
civili dai soldati sovietici era ben motivato. Ovunque erano passati avevano
lasciato il segno: devastazioni, fucilazioni in massa e, sempre, stupri di
ogni tipo. Complessivamente due milioni di donne tedesche furono violentate,
di cui più della metà in gruppo. Un dirigente sovietico si vantò che in
Germania, a guerra finita, erano nati quasi due milioni di bambini figli
degli stupratori.
Esistono innumerevoli raccapriccianti
testimonianze: un' amica di Ursula von Kardorff, la spia sovietica
Schulze-Boysen, «venne violentata da 23 soldati», uno dopo
l'altro, e all'ospedale dovettero applicarle punti di sutura.
«l nostri ragazzi erano così affamati di
sesso che spesso violentarono donne di sessanta, settanta e addirittura di
ottant'anni».
«Sembrava che i soldati sovietici avessero
bisogno di farsi coraggio con l'alcool per aggredire una donna. Ma poi, fin
troppo spesso, eccedevano nel bere e, nell 'incapacità di raggiungere
l'orgasmo si servivano della bottiglia, con risultati spaventosi. Numerose
vittime venivano mutilate in modo osceno».
«I soldati dell'Armata Rossa non
credono ai legami individuali con le donne tedesche»
scrisse il giornalista Zachar Agranenko nel suo diario
«nove, dieci, dodici uomini alla volta, le violentano su
base collettiva».
A Dahlem, suor Kunigunde, madre superiora di
una clinica per la maternità e di un orfanotrofio, riferì che «all'arrivo
dei sovietici, suore, ragazze, vecchie, donne incinte e madri che avevano
appena partorito furono tutte violentate senza pietà». Ma c'era anche
chi non si accontentava di «pescare nel mucchio», come era avvenuto nella
Prussia orientale: i soldati dell' Armata Rossa si aggirarono a lungo nei
rifugi di Berlino, armati di torce elettriche, per scegliere le loro prede.
Il corrispondente di guerra Vasilij
Grossman riportò che: «l'orrore domina negli occhi delle donne e delle
ragazze. Cose terribili stanno succedendo alle donne tedesche. Un tedesco
istruito spiega con gesti espressivi e poche parole di russo che sua moglie
quel giorno è stata violentata da dieci uomini [...] anche le ragazze
sovietiche che sono state liberate dai campi soffrono molto. La scorsa notte
alcune si sono nascoste nella stanza assegnata ai corrispondenti di guerra.
Nella notte siamo stati ridestati da forti urla. Uno dei corrispondenti non
aveva saputo trattenersi». E ancora: «una
giovane madre tedesca veniva violentata di continuo in un capannone di una
fattoria. I parenti andarono al capannone e chiesero ai soldati di lasciarle
il tempo di allattare il bambino, perché non smetteva di piangere. Tutto
questo succedeva nelle vicinanze di un comando e sotto gli occhi degli
ufficiali».
E, dunque, non solo le tedesche furono
vittime della brutalità dell' esercito di Stalin: in Polonia i soldati
sovietici violentarono, dopo averle «liberate» dai campi di lavoro tedeschi,
donne e ragazze ucraine, russe e bielorusse, anche di 16, 15 e 14 anni. La
testimonianza di una di loro, tal Maria Sapoval: «Ho atteso per giorni e
notti l'Armata Rossa. Ho atteso la mia liberazione e ora i nostri soldati ci
trattano peggio di quanto facessero i tedeschi. Non sono contenta di essere
viva». Lasciò scritto Klaudia Malascenko: «È
stato molto duro stare sotto i tedeschi, ma ora qui non c'è felicità. Questa
non è una liberazione. Ci trattano in modo terribile. Ci fanno cose
terribili».
Milovan Djilas, che era stato il capo della
missione militare jugoslava a Mosca, in una sua famosa intervista a Stalin
si lamentò per gli stupri e le atrocità commesse dai soldati dell' Armata
Rossa nei Balcani. Il dittatore rispose: «Lei non riesce a capire che un
soldato che ha fatto migliaia di chilometri fra il sangue e il fuoco possa
divertirsi con una donna o fare qualche altra sciocchezza?» .
Peraltro, barbarie di questo tipo non furono
appannaggio esclusivo delle armate sovietiche. Soldati americani dal 1942 al
1945 si dilettarono in questo «sport» oltre che in Germania, in Giappone, in
Francia e addirittura nel territorio della loro alleata Inghilterra.
Ovviamente le indagini storiche su questi
avvenimenti sono state sabotate in ogni modo, quindi i dati numerici che si
possono documentare sono solo parziali e limitati ai casi nei quali le
vittime si sono rivolte ad autorità di polizia, per denunciare l'accaduto, o
sono state ricoverate in ospedali per ricevere le cure necessarie. Ebbene,
in Occidente, si arriva già alla considerevole cifra di 17.080 casi di
stupri, tra singoli e di gruppo, di cui 11.040 in Germania, 3.620 in Francia
e 2.420 in Gran Bretagna.
Peraltro noi, nell'Italia del centro-sud,
fummo vittime delle barbare azioni delle truppe marocchine al seguito
dell'esercito francese.
Anche qui le autorità militari occupanti
hanno impedito ogni accertamento e ogni precisa quantificazione. Ciò
nonostante recenti studi storici sono riusciti a mettere a fuoco molti di
questi avvenimenti, offrendocene un triste resoconto. Ci riferisce Tommaso
Baris nel suo recente «Tra due fuochi»: «Per circa due settimane, dal
15 maggio all'inizio di giugno, le truppe francesi
si abbandonarono a una serie impressionante di saccheggi, omicidi e stupri
in tutti i paesi conquistati, soprattutto contro gruppi ristretti di persone
o individui isolati, finché non fu ordinato loro di arrestare la marcia a
Val Montone».
Una nota del 25 giugno del 1944 del
Comando generale dell' Arma dei carabinieri dell'Italia liberata alla
Presidenza del Consiglio segnalava nei comuni di Giuliano di Roma, Patrica,
Ceccano, Supino, Morolo e Sgurgola, in soli tre giorni (dal 2 al 5 giugno),
418 violenze sessuali, di cui tre su uomini, 29 omicidi, 517 furti compiuti
da soldati marocchini, i quali «infuriarono contro quelle popolazioni
terrorizzando le. Numerosissime donne, ragazze e bambine [...]
vennero violentate, spesso ripetutamente, da soldati in
preda a sfrenata esaltazione sessuale e sadica, che molte volte costrinsero
con la forza i genitori e i mariti ad assistere a tale scempio. Sempre ad
opera dei soldati marocchini vennero rapinati innumerevoli cittadini di
tutti i loro averi e del bestiame. Numerose abitazioni vennero saccheggiate
e spesso devastate ed incendiate.»
Ad Esperia, altro paese del centro Italia
teatro delle scorribande di quella soldataglia, ci riferisce ancora Baris:
«furono violentati anche gli uomini, lo stesso parroco e molte donne
anziane». Il medico condotto del paese riferì di oltre 700 casi di
stupro.
Migliaia e migliaia furono le donne
«marocchinate» in Italia. Fecero il giro del mondo la canzone napoletana che
raccontava la nascita di Ciro, un bambino «niru, niru» e il film di
Vittorio De Sica, con Sofia Loren, «La Ciociara».
Ovunque, insomma, queste nazioni di
«liberatori», i cui rappresentanti a Norimberga non esitarono a sedersi sul
banco dei giudici, si macchiarono di ignominia e barbarie.
* * *
In conclusione, è legittimo porsi una domanda:
se all'inizio degli anni Quaranta, al posto del regime sovietico in Russia
ci fosse stato qualcos' altro, un sistema politico più morbido, tollerante e
pluralista; se al posto di Stalin ci fosse stato un normale presidente della
repubblica o un monarca, o anche un dittatore, ma con meno «pelo sullo
stomaco», non disposto cioè a mandare al macello a cuor leggero milioni di
soldati e a fucilarne altrettanti, per essere sicuro di essere ubbidito, le
cose come sarebbero andate a finire?
E, senza Stalin e i suoi sistemi, se
l'Operazione Barbarossa non fosse stata fermata, i combattimenti nei vari
fronti - a nord, in Africa, nei Balcani - che piega avrebbero preso, e quale
sarebbe stato l'atteggiamento degli Stati Uniti; quale il loro impegno
militare, quale la loro partecipazione nei vari teatri di guerra?
Insomma, la Seconda Guerra Mondiale come
sarebbe finita? Con una pace contrattata, o addirittura con il prevalere
delle forze dell' Asse?
Sicuramente si sarebbe giunti ad un assetto
internazionale profondamente diverso da quello stabilito a Yalta e il ruolo
dell'alta finanza e dei centri di potere mondialisti che la sottendono oggi
non sarebbe quello di dominio planetario. Perché, dopo 60 anni, il volto del
vincitore finale di tutti gli scontri del XX secolo si è svelato senza
possibili equivoci: è proprio quello del mondialismo usurario. Un potere che
va al di là del proprio attuale santuario, gli Stati Uniti d'America,
giacché quando questo non fosse più funzionale ai propri disegni di
prevaricazione globale - se ne è già avuta qualche piccola avvisaglia - non
esiterebbe ad abbandonarlo per far vela verso lidi più propizi.
Il dollaro potrebbe essere sostituito da altra
moneta o da una nuova forma di moneta; l' «onore» di svolgere la funzione di
braccio armato del mondialismo potrebbe toccare a un'altra nazione o ad una
nuova formula di esercito, espressione di coalizioni controllate da un
potere internazionale.
Ha vinto il mondialismo. Ad opporsi a questo
potere globale è rimasto qualche paese arabo, quelli che ci vengono
presentati come «canaglie» e verso i quali USA e Sionisti continuano ad
aizzare tutte le altre nazioni; qualche paese latino-americano reso
inoffensivo dalla costante minaccia di un colpo di stato organizzato dalla
CIA o di uno sbarco di marines; qualche piccolo paese asiatico che si
illude di disporre ancora di una impunità derivatagli da importanti
protezioni internazionali; ma anche la Cina, ormai, ha dimostrato di essere
disponibile a diventare mercato consumistico e terra per capitalisti e
speculatori finanziari.
Ha vinto il mondialismo; a questo quindi sono
serviti i milioni di morti europei, la distruzione delle nostre città, le
persecuzioni, la perdita di sovranità delle nostre nazioni. A questo è
servita la carneficina di 38 - o 60? - milioni di sovietici ordinata da
Stalin, giacché l'URSS oggi non c'è più ed è ragionevole ritenere che senza
questo immane massacro l'esito della Seconda Guerra Mondiale e tutta la
storia successiva sarebbero stati molto differenti.
L'esercito dell' Asse è stato battuto da quel
poderoso muro di gomma che ha fermato l'Operazione Barbarossa. Un muro fatto
di un numero infinito di corpi umani, di disperazione e di terrore; un muro
che poteva essere realizzato solo da un regime come quello comunista e da un
dittatore sanguinario come Josif Stalin.
Anche se può apparire paradossale,
quindi, l'apporto determinante al dominio mondiale del capitalismo e
dell'usurocrazia è stato fornito proprio da quelle masse che si erano poste
dietro le bandiere rosse in nome di una rivoluzione proletaria, socialista e
anticapitalista e dai regimi che erano sorti grazie alla loro spinta.
I giganti della finanza internazionale, i
paperoni che decidono il destino di interi popoli spostando moneta virtuale,
o creandone dal nulla quantità incontrollate, gli intoccabili nuovi padroni
del mondo poggiano i loro piedi sui liquami sanguino lenti lasciati dallo
stalinismo così come dagli stermini operati da tutti i loro eserciti e da
tutti i loro bombardieri.
Un fiume di sangue che non si è più fermato:
che ha riempito le città dell'America latina e le foreste dell'lndocina, le
savane africane, e poi la Palestina, il Libano, i Balcani, l'Afghanistan,
l'Iraq; ovunque ci fosse un anelito di libertà da reprimere.
Sfoggiando un' ineffabile ipocrisia, la
fantasiosa propaganda mondialista continua incessantemente, nonostante siano
passati oltre sei decenni, a presentare i vinti come il «male assoluto», il
demone, l'origine di ogni sopruso e sopraffazione. Il resto - cioè le
violenze perpetrate dal variopinto mondo dei vincitori - deve essere
metabolizzato.
Si può cioè condannare Stalin, ma deve
essere accettato per «buono» il giudizio da dare sull'assetto del mondo che
è derivato dalla collaborazione con quel dittatore. Si può condannare Mao
Tzetung - è proprio di queste settimane un serrato dibattito negli ambienti
di sinistra su questi giudizi - ma la Cina dove si è appena recato Romano
Prodi con il suo codazzo di speculatori e di capitalisti in cerca di affari
e di favori, è il risultato storico della costruzione del «Grande
Timoniere». Senza la sanguinosa repressione di piazza Tien An Men la Cina di
oggi sarebbe un mondo assolutamente diverso. E, in ogni caso, in quella
parte del mondo, i metodi repressivi non sono per nulla cambiati.
* * *
Nel 1937, mentre in Germania si
nazionalizzava la Banca centrale e lo Stato, a nome del popolo, riacquistava
la proprietà della moneta, nell'URSS, patria della rivoluzione proletaria,
socialista e anticapitalista, la Gosbank, l'istituto di emissione
sovietico, veniva privatizzata.
Tra i massimi realizzatori di questa - in
verità ben poco propagandata riforma ci fu l'ebreo Armand Hammer -
originariamente Heimann - nato in Russia nel 1898, ma cresciuto negli Stati
Uniti dove il padre Julius si era trasferito e aveva fondato il Partito
Comunista americano. Il nonno, un ricco costruttore di navi di Odessa, era
noto per vantarsi di essere un diretto discendente dei Maccabei.
Armand Hammer entrò nel mondo degli affari
grazie all'amicizia con Mortimer Schiff, figlio di Jacob Schiff, socio della
Banca d'Affari Kuhn & Loeb (che oggi si chiama Shearson
Lehman) e ritornò in Russia recando come cadeau per Lenin, un ingente
quantitativo di grano. In seguito accumulò una fortuna grazie al
contrabbando di alcool durante il Proibizionismo americano.
Divenuto per tutti il «miliardario
rosso», Hammer divenne amico personale di Lenin, poi di Stalin e fino al
1989, anno in cui morì, di tutti i segretari del PCUS. Fu lui il giocoliere
della finanza che convinse Stalin ad adeguarsi a tutte le altre banche di
emissione del mondo mettendo nelle mani degli speculatori internazionali la
proprietà e il controllo della moneta sovietica.
Questa vicenda, unita al determinante
contributo che il regime stalinista ha dato all'esito del secondo conflitto
mondiale, mette in evidenza la paradossale vocazione del comunismo e, via
via sino ai nostri giorni, di ogni governo di sinistra, a favorire
concretamente, nei fatti di ogni giorno, il dominio dei «poteri forti».
Entrando, insomma, in uno dei santuari del
mondialismo, nella sede centrale di una grande Banca di emissione o
d'affari, magari la Federal Reserve, se ci si imbattesse in un busto
del «compagno» Josif Vissarionovic Stalin non sarebbe né anacronistico né
disdicevole; anzi sarebbe giusto: un doveroso segno di riconoscenza per i
benefici ricevuti.
Mario Consoli
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Ordine di Stalin, N. 0428
del 17 novembre 1941
La Stavka del Comando Supremo ordina quanto
segue:
1. Tutti gli insediamentiin prossimità dei
quali si trovano truppe tedesche e per una profondità variante da 40 a 60
chilometri dalla linea del fronte devono essere distrutti e dati alle
fiamme. Lo stesso vale per quelli situati nella fascia di 20-30 chilometri
delle direttrici dell'invasione nemica. Per la distruzione degli
insediamenti nel raggio indicato deve utilizzarsi l'arma aerea, oltre che
l'artiglieria ed i lanciagranate. Si devono altresì impiegare unità speciali
esploranti, unità di sciatori e gruppi di partigiani, appositamente armati
di ordigni incendiari.
I gruppi speciali devono condurre le azioni di
annientamento indossando divise dell'esercito tedesco e delle Waffen-SS.
Tale comportamento deve suscitare l'odio nei confronti degli occupanti
fascisti e favorire il reclutamento di partigiani alle spalle dei fascisti.
Bisogna fare particolare attenzione a risparmiare alcuni abitanti affinché,
sopravvivendo, possano riferire e diffondere le notizie di atrocità commesse
dai Tedeschi.
2. A tal fine in ogni reggimento saranno
costituiti gruppi speciali di venti, massimo trenta, unità col compito di
annientare e incel1diare gli insediamenti suddetti. Devono essere scelti
combattenti che abbiano dato prova di coraggio. In particolare quelli che
avranno agito con divise tedesche dietro le linee nemiche saranno proposti
per una decorazione al valor militare.
Occorre diffondere nella popolazione la voce
che i Tedeschi mettono a ferro e fuoco località e villaggi per punire i
partigiani.
Archivio Nazionale di Washington, Stati
Uniti
(Serie d'archivio
429, Sezione 461,Stato Maggiore dell'esercito,
sezione Fremde Heere Ost Il, H 3/70 Fr 6439568)
da: J. Nolywaika - La Wehrmacht- Ritter,
2003
"Il dominio di gente trista è dovuto
unicamente alla viltà di chi si lascia soggiogare"
Plotino
Plotino
"non esiste né Destra né Sinistra, ma solo il
Sistema e chi è contro il Sistema"(Eduard Limonov)
"Imporre ad un popolo una
religione che gli sia estranea è il modo migliore per fargli abbandonare,
prima o poi, qualunque religione.
Il principale rimprovero
che si possa fare al cristianesimo è aver creato le condizioni per
l'ateismo."
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