(da Il Borghese) – «Professoressa, ma che cos’è il comunismo?», domanda il classico studentello sprovveduto alla sua docente, nell’errata convinzione che l’insegnante risponderà in maniera oggettiva, cercando, così, di adempiere al
proprio dovere. Quest’ultima, osservando dall’alto della sua
presunzione didattica il malcapitato, il quale ha, come unico torto, la
colpa di ignorare il significato di questo aberrante termine, gli
risponde fredda: «Il comunismo è la massima espressione di libertà mai
concepita dagli uomini e coloro che lo professano sono persone
democratiche, che svolgono con dedizione e profondo senso di
responsabilità il loro lavoro in favore della giustizia sociale». A
questo punto, però, il ragazzo aggrotta la fronte, e chiede ancora: «…
ma prof… allora cos’è il Fascismo? La risposta che mi ha dato mi lascia
un po’ perplesso, perché ho letto in un libro che parlava del Ventennio
gli stessi aggettivi da lei adoperati». La docente, allora, ancora più
indignata di quanto già non fosse prima, tutta stizzita, si affretta a
rispondere al giovane, per non dare troppo tempo ai ragazzi della classe
di pensare: «Chi te l’ha detto? Non è vero! Voglio parlare subito con
un tuo genitore! A proposito… ti interrogo in storia! Vieni!» Potete
tranquillamente immaginare l’esito della «onesta» chiacchierata tra i
due ed il voto espresso dalla docente. Se tutto è andato come previsto e
se il ragazzo, oltre ad averla indispettita, aveva anche la colpa di
non aver studiato in maniera approfondita, come qualche volta può
andare, l’insufficienza o – al più, la sufficienza risicata, concessa
per pietà (o almeno così l’arguta professoressa potrebbe tentare di
giustificare l’assenza totale di comprensione nei confronti del
malcapitato) – non gliel’avrebbe tolta proprio nessuno! Lo stesso
ragazzo, alla fine della giornata, avrebbe fatto rientro a casa con una
gigantesca confusione in testa e, come se non bastasse, anche con un
brutto voto in storia, del tutto immeritato. C’è dell’altro, però,
soprattutto quando lo studentello in questione inizierà a sfogliare e a
maneggiare i primi manuali di storia, alla ricerca di alcune valutazioni
sull’Età Contemporanea. In (quasi) tutti leggerà, infatti, che Stalin
fu un dittatore piuttosto severo, ma in fondo buono, mentre sarà
costretto a riempirsi la testa con giudizi tanto negativi, quanto
iperbolici e non del tutto attendibili riferiti al Duce degli Italiani,
Benito Mussolini, ucciso senza nemmeno essere stato sottoposto ad un
regolare processo. Un Paese davvero molto democratico, quello in cui
viviamo! Verrebbe dunque da pensare che le pensioni, le bonifiche, gli
ospedali, l’edilizia, le colonie ed il senso del rispetto per gli adulti
e per i superiori fossero stati trasmessi, in Italia, da Stalin e non
da quell’onesta generazione di lavoratori e di cittadini laboriosi che
avevano giustamente visto nel Fascismo l’unico baluardo possibile
davanti al devastante dilagare del bolscevismo. Il nostro caro studente,
nondimeno, sarebbe soltanto all’inizio di un sistematico lavaggio del
cervello, all’interno del quale gli verranno forniti dati per lo meno
distorti o usati in maniera tendenziosa, ma chissà che, arrivati ad un
certo punto dell’anno scolastico, qualcuno non arrivi anche a
consigliargli, ed in maniera più o meno obbligatoria, lo schieramento
politico da votare per la sua prima volta. Anche
questo, ragazzi, è un lampante esempio di democrazia. Democrazia
all’italiana, però. Questo, tuttavia, non soltanto per quanto riguarda
una sola, e forse la più delicata, disciplina, almeno in questo senso,
in altre parole la storia. L’indottrinamento, di fatto, continuerebbe,
indisturbato, per la disciplina che si rivela essere comunque importante
ai fini del raggiungimento di una preparazione omogenea da parte degli
studenti, cioè lo studio della letteratura italiana, all’interno della
quale verrebbero proposti modelli prevalentemente distorti ed
ideologicamente orientati: ad esempio, non sarà presentato nel modo
dovuto un vero e proprio genio della nostra letteratura del ’900 che ha
contribuito in maniera sistematica allo sviluppo ed alla frammentazione
progressiva dell’Io all’interno di romanzi e tragicommedie, che
è stato apprezzato da tutto il mondo (da Berlino alla città della
Grande Mela), quale Luigi Pirandello, anzi qualcuno proverà a definirlo
un poetuncolo da strapazzo, che decise di aderire al Partito Fascista soltanto ed esclusivamente per convenzione, quando lui stesso scriverà, a L’Idea Nazionale, il 28 ottobre 1923: «Eccellenza, sento che per me questo è il momento più propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se l’E.V. mi stima degno di entrare nel Partito Nazionale Fascista, pregierò come massimo onore tenervi il posto del più umile e obbediente gregario. Con devozione intera». E, come riporterà «L’Impero», il 23 settembre 1924: «L’intuizione pirandelliana della vita politica è sostanzialmente fascista (e tale era anche prima che il Fascismo si definisse) in quanto nega i concetti di assoluto (vedi immortali princìpi) e afferma la vitale necessità della continua creazione di illusioni, di realtà relative, mete sempre fuggenti delle aspirazioni umane che, così solo, in questa perpetua corsa a una verità mai raggiungibile in assoluto, possono vivere e dar frutti». Da
queste parole risulta evidente come il Grande Maestro abbia trovato in
quella più compiuta forma di Stato liberale un ambiente assai salubre
nel quale sviluppare al meglio la sua profonda ed autentica sensibilità
artistica. Verrà dunque presentato all’attenzione degli studenti anche
un grande quale D’Annunzio, il Vate, apostrofandolo come saltimbanco,
quando invece costituisce, senza dubbio alcuno, per la maggior parte
degli studiosi seri, tra i quali si annoverava Benedetto Croce, il
poeta, lo scrittore, con il quale termina la letteratura italiana.
Risulta oltremodo interessante il giudizio che Angelo Marchese dà del
Vate, definendolo «un immenso ed ingombrante continente da attraversare».
I modelli esaltati dai docenti organici sono, invece, elementi come
Calvino e Pasolini che hanno – ingiustamente – ottenuto un posto nell’Olimpo, soltanto per aver aderito al partito dei vincitori ed aver, quindi, conseguito la tessera giusta al momento giusto. Allora,
il fatto che una persona abbia delle idee che discordano rispetto ad
una certa scuola di pensiero vuol dire che nel nostro vacillante e
compromesso sistema culturale, non v’è più spazio per la libertà di
pensiero, figurarsi poi per quella d’opinione. Secondo l’ottusa
lungimiranza di certi intellettuali organici, infatti, il valore
dell’individuo viene assai contratto, per cui tende ad emergere,
preferibilmente, lo spirito di una casta oligarchica e
sinistrorsa che da sempre non ha amato né il dibattito, né il confronto,
figurarsi poi il dissenso. Quale potrebbe essere la nostra risposta ai
numerosi tentativi di livellare tutto e tutti spaventosamente verso il
basso: dialettica degli opposti? dialettica dei distinti? Come si fa,
quindi, a distinguere, quando si è già sistematicamente e totalmente
appiattita ogni differenza?
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