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Iper globalizzati e
senza futuro
di Marco Cedolin
Un progresso declinato nel verbo delle
multinazionali e del gigantismo, dove piccolo è brutto per
antonomasia, dove l’appartenenza e il senso di comunità sono piaghe da
estirpare nel nome del mondialismo, dove le nazioni costituiscono il
retaggio di un passato da dimenticare, ormai immolate sull’altare dei
mercati, della finanza globale e di una piccola élite parassitaria che
gestisce la vita di tutti noi, sempre che questo esercizio quotidiano di
sopravvivenza possa definirsi vita.
Ci
hanno raccontato che sarebbe stato necessario rottamare
istituzioni anacronistiche come lo stato e la famiglia, per entrare in un
futuro radioso costituito da istituzioni transnazionali in grado di renderci
liberi e felici. Che avremmo dovuto aprire le nostre frontiere alle
importazioni, che quella della globalizzazione si sarebbe rivelata l’unica
strada praticabile e oltretutto la migliore scelta possibile.
E tutti noi abbiamo accettato,
obnubilati dal canto delle sirene mediatiche, spaventati dall’accusa di
antimodernismo, plagiati da facili promesse che mai si sarebbero tradotte in
realtà.
Abbiamo accettato un futuro privo di qualsiasi coordinata, dove l’iper-globalizzazione
ci ha rubato ogni scampolo di umanità, dove
perfino
garantirsi il reddito necessario alla sopravvivenza sembra essere diventato
un miraggio, dove una piccola casta transnazionale governa e
gestisce tutto. Dall’economia alla politica, dall’informazione al mercato
del lavoro, dalla cultura dominante alla gestione delle risorse. Le nazioni
non sono ormai altro che gusci vuoti che si allungano su confini virtuali,
all’interno dei quali arringa la folla un variopinto bestiario politico,
interamente a libro paga del medesimo padrone. Il tenore di vita e le
prospettive della popolazione continuano una caduta libera che sembra non
avere fine, mentre ogni cosa si livella al ribasso, su scala sempre più
globale.

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