venerdì 4 settembre 2015

LA GIUSTIZIA DEI VINCITORI

LA GIUSTIZIA DEI VINCITORI

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Questo dossier è stato ritrovato dentro un archivio informatico del nostro ufficio storico. Lo riproponiamo nella forma originale, perché ricco di dati, eventi e circostanze di indubbio interesse storico e documentale, riguardante gli eventi della Guerra Civile 1943-1945.

IL MARTIRIO DELLA FAMIGLIA UGAZIO

Augusto Pastore, Articolo tratto da “L’ultima Crociata” del 1998.

La tragedia della famiglia Ugazio vien voglia di scriverla con l’inchiostro rosso. Un rosso sangue. E ci vorrebbero anche le tonalità espressive di Eschilo per rendere con chiarezza l’atmosfera allucinante nella quale venne consumata una strage orribile che lascia increduli, inorriditi. Le malvagità della sporca bestia umana toccano vertici sconosciuti alla bestia stessa. certo che al cospetto del calvario di Mirka, Cornelia e Giuseppe Ugazio la più maledetta iena proverebbe un moto di sgomento.
Galliate è un grosso centro agricolo-industriale, posto ad una decina di chilometri da Novara. Si allunga a levante, fino alle rive del Ticino.
In questo pezzo di valle padana l’inverno è rigido, umido: una cappa pesante di nebbia avvolge tutto. D’estate l’afa, stagnante e le zanzare fanno attendere il calare del sole come una benedizione del Padreterno. Allora la gente esce di casa e si siede sui gradini. Aspetta il ristoro di un filo d’aria.
Anche la sera del 28 agosto 1944, dopo una giornata arroventata, a Galliate si aspettava il sollievo del tramonto.
Giuseppe Ugazio, un brav’uomo di 43 anni, segretario del Fascio locale, si intratteneva con alcuni amici presso la trattoria S. Carlo. Discuteva della guerra, delle terrificanti incursioni sul ponte del Ticino spaccato in due dalle bombe inglesi.
Cornelia, la figlia di 21 anni, simpatica e bella studentessa in medicina, si era recata da conoscenti che l’avevano pregata per alcune iniezioni. Mirka, l’ultima creatura di Giuseppe Ugazio, era saltata sulla bicicletta e si divertiva a pedalare forte con la gioia innocente dei 13 anni! Ma in quella sera del 28 agosto 1944, il destino di Mirka, Cornelia e Giuseppe Ugazio si compie. Un gruppo di partigiani, usciti dalla boscaglia, come lupi famelici attendono i tre. Con un pretesto qualsiasi distolgono Giuseppe Ugazio dalla compagnia degli amici, poi, camuffati da militi della R.S.I. in borghese, fermano Cornelia. Mirka, la dolce bambina di 13 anni con le trecce avvolte sulla nuca e il vestitino bianco a fioroni rosa, viene spinta dalla camionetta in corsa sul bordo della strada. La raccolgono in fretta, senza dare nell’occhio, accorti come una banda di bucanieri. Una sporca e nodosa mano le comprime la bocca mentre l’automezzo si rimette in marcia. Il tragico appuntamento per le tre vittime è fissato presso la tenuta «Negrina», un cascinale isolato a mezza strada tra Galliate e Novara. Sono le 21 della sera del 28 agosto 1944, un cielo calmo, dolce, pieno di stelle. Dalle risaie si alza il concerto gracidante delle rane: alla tenuta «Negrina» incomincia invece la sarabanda, la macabra giostra. I partigiani, una ventina circa, hanno tanta fame e sete, ma per fortuna il pollaio è portata di mano e la cantina a due passi. Un festino in piena regola per tutti quanti ad eccezione dei tre prigionieri. Mirka piange ed invoca la madre. Cornelia, dignitosa come la donna di Roma, sfida con gli occhi quel banchetto di forsennati. Papà Ugazio è cereo in viso: avverte la tragedia immane che pesa nell’aria. Avanti, è ora. Il vino ha raggiunto l’effetto e a calci e a pugni la turba di delinquenti spinge Giuseppe Ugazio nel boschetto adiacente la tenuta. Lo legano ad un fusto, gli spengono i mozziconi di sigarette sulle carni e, sotto gli occhi terrorizzati di Mirka e di Cornelia, lo finiscono a pugni in faccia e pedate nel basso ventre. Il calvario dura più del previsto perché la fibra fisica dell’Ugazio resiste. La gragnuola di pugni infittisce, i calci si fanno più decisi. Ora si ode soltanto il rantolo: «Ciao Mirka, ciao Cornelia» e Giuseppe Ugazio spira. Adesso inizia l’ignobile. Sono venti uomini avvinazzati su due corpi indifesi. Mirka è una bambina e non conosce ancora le brutture degli uomini degeneri. Dapprima non comprende, non sa, poi tenta un’inutile resistenza. Cornelia si difende ma è sopraffatta. Sette ore di violenze ancestrali, sette ore di schifo e di urla. Poi l’alba. Mirka e Cornelia non respirano più. Conviene togliere di mezzo i cadaveri e ritornare nella boscaglia. Si scavano venti centimetri di terra e si buttano le vittime. Le zolle fredde al contatto delle carni riaccendono un barlume di vita e i due corpi sussultano ancora. Ma è questione di un momento per i partigiani: a Cornelia spaccano il cranio con il calcio del mitra e sul collo di Mirka, la bambina, si abbatte uno scarpone che la strozza. La tragedia è finita.
Sull’orizzonte si alza il sole, il sole insanguinato del 29 agosto 1944, a soli otto mesi dalla “liberazione”.
A mamma Maria Ugazio, il giornalista chiede di fargli vedere un ricordo personale di Mirka. Allora gli fu mostrato un album di famiglia un poco ingiallito dal tempo. Sul retro di una foto scattata nei giardini dell’Isola Bella la mano infantile di Mirka aveva scritto nel 1943 queste parole: «Al mio papalone che mi ha portato a fare questa bella gita, la sua Mirka».
Per i comunisti i parroci erano tra gli oppositori più efficaci, quindi molto pericolosi. Avevano confessionali in cui sapere anche la verità sulla violenza rossa che, fuori, nessuno osava dire.
Avevano pulpiti da cui parlare e condannare, gente ad ascoltare. Erano organizzati con oratori, consigli comunali, formavano diocesi. Quattro volte più numerosi di oggi, erano disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino più delle case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici terrieri, ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l’altra come padroni, e rientravano perciò doppiamente in quell’assunto che, dalla fine della guerra, girò per anni tra le squadre d’azione comunista, in cellula e nelle case del popolo:
«Se dopo la liberazione ogni compagno uccidesse il proprio parroco e ogni contadino il padrone, il problema sarebbe già risolto».
E non è vero che ad ogni don Camillo rispondesse un Peppone. I primi furono tanti, dei secondi in questo amaro viaggio di triangolo della morte non vi è traccia. Non c’è parroco che non abbiano intimidito, isolato. Tantissimi furono scherniti, derubati, rapinati. Ora io vi racconterò di quelli che, dopo aver già tanto sofferto in tempo di guerra da tedeschi, fascisti e partigiani rossi, sono stati martirizzati in tempo di pace dalla violenza comunista. Nell’allora folto branco di parroci può magari scapparci, che so, lo scapestrato, il disattento, l’arricchito. Non però tra le decine uccisi.
Ogni assassinato è perbene. E tra i più attivi, equilibrati, generosi, attenti alla propria gente. E’ seguito, amato, perciò un maledetto nemico del popolo, dunque va soppresso, distrutto e che ogni assassinato sia esempio per gli altri, che tengano la bocca chiusa. E c’è un motivo, più d’ogni altro: essi hanno in sé e con sé Dio.
Il 25 aprile è la Liberazione, la fine della guerra, e da adesso i parroci dell’Emilia Romagna, ma anche delle regioni vicine, ogni sera, nell’ultimo segno della croce, non sanno se rivedranno l’alba o se capiteranno in casa gli assassini, come accade la sera del 16 gennaio ’46 a don Francesco Venturelli, arciprete di Fossoli, nel Modenese vicino Carpi.
E’ stato cappellano nel campo di concentramento della sua parrocchia, è un tipo che non chiede che tessera politica hai, che assiste tutti quanti, inglesi, fascisti, partigiani, collaborazionisti. E’ uno che dopo la Liberazione detesta la brutalità e gli eccidi che si ripetono nel Carpigiano contro fascisti e presunti fascisti. E dunque è sera, uno sconosciuto lo chiama fuori di canonica chiedendo di accorrere per un incidente mortale sulla provinciale. Don Francesco corre e si trova invece davanti a un plotone di rossi che lo falcia col mitra.
Invece don Gianni Domenico, trentenne, celebra messa ai giovani soldati repubblichini. Il 24 aprile ’45 all’arrivo degli alleati corre tra la sua gente a San Vitale di Reno: in chiesa lo stanno aspettando i partigiani comunisti, lo gettano in un porcile, lo denudano, lo violentano. Ci sono anche donne tra loro, e una in particolare, è la più ardente nel seviziarlo. Il lungo martirio si conclude a colpi di mitra e ai parrocchiani si impedisce per giorni di seppellire il martirizzato.
Don Giuseppe Tarozzi è parroco a Riolo di Castelfranco, diocesi di Bologna, severissimo nell’amministrare un’opera pia fa il diavolo a quattro per tener lontano da essa la politica e ladri. Notte del 25 maggio ’45: i commandos comunisti fracassano a colpi di scure la porta della canonica, lo strappano dal letto, lo pestano, poi lo trascinano via in camicia da notte. La gente vede un’ombra bianca sospinta fuori a calci, il suo cadavere non sarà mai più ritrovato.
Ancora diocesi di Bologna: don Giuseppe Rasori, sessantenne a San Martino Casola ha solo due parrocchiani non iscritti al PCI. Sberleffi, minacce, assalti alla chiesa. Vive nella paura ma resta. Nel pomeriggio del 2 luglio ’46 in canonica, dove in guerra ha nascosto tanti partigiani, lo ammazzano con un colpo di pistola al collo. Il suo successore poco tempo dopo in chiesa parlando della passione di Gesù accenna allo straccio rosso con cui fu coperto per derisione. Deve fare ripetute e pubbliche scuse, i comunisti l’hanno presa come ingiuria alla loro bandiera.
Don Alfonso Reggiani, parroco di Anzola di Piano, Bologna, il 5 dicembre ’45 sta pedalando di ritorno da una visita ai suoi ammalati, lo fermano in due, l’ammazzano a raffiche di mitra, se ne vanno sulle biciclette. Una cigola e gli assassini dicono: «L’ungeremo a casa, adesso che abbiamo ammazzato il maiale». Al funerale di don Alfonso, reo di battute umoristiche sui comunisti, ci sono solo cinque bambini e qualche donna.
Un prete semplice, conciliante, don Enrico Donati, ma è parroco a Lorenzatico, Bologna, della famiglia del sindacalista bianco Giuseppe Fanin, che sarà massacrato, nel ’48 a colpi di spranga dai comunisti. Il 13 maggio ’45 quattro compagni con la scusa di portare don Donati al comando partigiano per formalità, lo feriscono a colpi di mitra, gli legano le mani, lo infilano in un sacco e lo gettano con due sassi per zavorra in un macero colmo d’acqua.
La sera del 25 luglio ’45 un altro comando chiama don Achille Filippi, parroco di Maiola, sull’uscio della chiesa e l’uccide: cancellando anni ed anni di lavoro e bontà per la gente, le colonie per i bambini, la povertà degli anziani. Ma il gran farabutto in chiesa biasimava le violenze e i soprusi dei comunisti; a morte.
Già un altro era stato condannato a morte un mese prima della Liberazione a Santa Maria in Duno per aver rinfacciato ai partigiani rossi efferatezza durante la guerriglia: il primo marzo ’45 si presentano due armati travestiti da tedeschi, irrompono in canonica con due donne anch’esse armate, dicono di essere di un comitato, legano Don Corrado Bortolini, rubacchiano e poi lo portano via in motocicletta. Mai più trovato, anche se tutti sanno che è stato torturato, strangolato, gettato in una fossa. Al suo successore c’è chi ammonisce di non interessarsene: «Tanto don Corrado dorme in un campo di fiori».
Don Tino Galletti, nella chiesa di Spazzate Sassatelli, a Imola, è un altro che non parla bene dei comunisti in una parrocchia rossa, non più di sei persone alla messa domenicale. Il 9 maggio ’45 è ucciso a colpi di pistola e per non mandarlo via da solo ammazzano anche tre dei suoi sei fedeli. Non un cane ai funerali.
Implora pietà invece don Luigi Lenzini, parroco di Crocetta di Pavullo, nel Modenese, la notte in cui un gruppo di comunisti, gente del paese, lo trascina in camicia da notte dalla canonica alla vigna e qui lo seviziano da stramaledetti e poi gli spaccano la testa: ha condannato il metodo di «far fuori la gente» dei comunisti.
Freddati a pistolettate il parroco di Mocogno e di Montalto, cioè il canonico Giovanni Guizzardi e don Giuseppe Preci, nel Modenese. Morte lenta per l’anziano don Ernesto Talè, parroco di Castellino delle Formiche, modenese, e per la donna che stava accompagnandolo da un ammalato, «quella carogna non voleva morire … », dirà al bar, vantandosi con gli amici, uno dei “coraggiosi partigiani” torturatori del prete.
Nel Reggiano non ammettono gli eccessi disumani di chi, partigiano comunista, scredita il movimento di Resistenza e sono freddati col mitra don Giuseppe Lemmi, cappellano di Felina e don Luigi Manfredi, parroco di Budrio.
E’ il 14 settembre ’45, l’assassino che spacca il cranio a don Tebaldo Dapporto, parroco di Casalfiumanese di Imola, corre alla Camera del Lavoro a vantarsi d’aver fatto fuori il suo prete-padrone.
Don Carlo Terenziani, prevosto di Ventosa, la mattina del 29 aprile ’45 è preso dai partigiani rossi che lo fanno girare per le strade come un Cristo schernito, sputato, ingozzato di vino all’osteria, battuto e infine fucilato a sera.
Don Giuseppe Pessina, parroco di San Martino di Correggio, piange diciannove parrocchiani assassinati dai comunisti e sa troppe cose: ucciso a colpi di mitra mentre la sera del 18 giugno ’46 rintocca l’Ave Maria… Purtroppo, l’elenco delle vittime delle radiose giornate non finisce qui,
tanti preti martiri in Emilia, tanti Toscana e in altre regioni…
Tutto questo orrore non vi è bastato?
Credete ancora alla favola dei partigiani combattenti per democrazia e per la libertà?

righe-tricolori

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