LA GIUSTIZIA DEI VINCITORI
Questo
dossier è stato ritrovato dentro un archivio informatico del nostro
ufficio storico. Lo riproponiamo nella forma originale, perché ricco di
dati, eventi e circostanze di indubbio interesse storico e documentale,
riguardante gli eventi della Guerra Civile 1943-1945.
IL MARTIRIO DELLA FAMIGLIA UGAZIO
Augusto Pastore, Articolo tratto da “L’ultima Crociata” del 1998.
La tragedia della famiglia Ugazio vien
voglia di scriverla con l’inchiostro rosso. Un rosso sangue. E ci
vorrebbero anche le tonalità espressive di Eschilo per rendere con
chiarezza l’atmosfera allucinante nella quale venne consumata una strage
orribile che lascia increduli, inorriditi. Le malvagità della sporca
bestia umana toccano vertici sconosciuti alla bestia stessa. certo che
al cospetto del calvario di Mirka, Cornelia e Giuseppe Ugazio la più
maledetta iena proverebbe un moto di sgomento.
Galliate è un grosso centro
agricolo-industriale, posto ad una decina di chilometri da Novara. Si
allunga a levante, fino alle rive del Ticino.
In questo pezzo di valle padana l’inverno
è rigido, umido: una cappa pesante di nebbia avvolge tutto. D’estate
l’afa, stagnante e le zanzare fanno attendere il calare del sole come
una benedizione del Padreterno. Allora la gente esce di casa e si siede
sui gradini. Aspetta il ristoro di un filo d’aria.
Anche la sera del 28 agosto 1944, dopo una giornata arroventata, a Galliate si aspettava il sollievo del tramonto.
Giuseppe Ugazio, un brav’uomo di 43 anni,
segretario del Fascio locale, si intratteneva con alcuni amici presso
la trattoria S. Carlo. Discuteva della guerra, delle terrificanti
incursioni sul ponte del Ticino spaccato in due dalle bombe inglesi.
Cornelia, la figlia di 21 anni, simpatica
e bella studentessa in medicina, si era recata da conoscenti che
l’avevano pregata per alcune iniezioni. Mirka, l’ultima creatura di
Giuseppe Ugazio, era saltata sulla bicicletta e si divertiva a pedalare
forte con la gioia innocente dei 13 anni! Ma in quella sera del 28
agosto 1944, il destino di Mirka, Cornelia e Giuseppe Ugazio si compie.
Un gruppo di partigiani, usciti dalla boscaglia, come lupi famelici
attendono i tre. Con un pretesto qualsiasi distolgono Giuseppe Ugazio
dalla compagnia degli amici, poi, camuffati da militi della R.S.I. in
borghese, fermano Cornelia. Mirka, la dolce bambina di 13 anni con le
trecce avvolte sulla nuca e il vestitino bianco a fioroni rosa, viene
spinta dalla camionetta in corsa sul bordo della strada. La raccolgono
in fretta, senza dare nell’occhio, accorti come una banda di bucanieri.
Una sporca e nodosa mano le comprime la bocca mentre l’automezzo si
rimette in marcia. Il tragico appuntamento per le tre vittime è fissato
presso la tenuta «Negrina», un cascinale isolato a mezza strada tra
Galliate e Novara. Sono le 21 della sera del 28 agosto 1944, un cielo
calmo, dolce, pieno di stelle. Dalle risaie si alza il concerto
gracidante delle rane: alla tenuta «Negrina» incomincia invece la
sarabanda, la macabra giostra. I partigiani, una ventina circa, hanno
tanta fame e sete, ma per fortuna il pollaio è portata di mano e la
cantina a due passi. Un festino in piena regola per tutti quanti ad
eccezione dei tre prigionieri. Mirka piange ed invoca la madre.
Cornelia, dignitosa come la donna di Roma, sfida con gli occhi quel
banchetto di forsennati. Papà Ugazio è cereo in viso: avverte la
tragedia immane che pesa nell’aria. Avanti, è ora. Il vino ha raggiunto
l’effetto e a calci e a pugni la turba di delinquenti spinge Giuseppe
Ugazio nel boschetto adiacente la tenuta. Lo legano ad un fusto, gli
spengono i mozziconi di sigarette sulle carni e, sotto gli occhi
terrorizzati di Mirka e di Cornelia, lo finiscono a pugni in faccia e
pedate nel basso ventre. Il calvario dura più del previsto perché la
fibra fisica dell’Ugazio resiste. La gragnuola di pugni infittisce, i
calci si fanno più decisi. Ora si ode soltanto il rantolo: «Ciao Mirka,
ciao Cornelia» e Giuseppe Ugazio spira. Adesso inizia l’ignobile. Sono
venti uomini avvinazzati su due corpi indifesi. Mirka è una bambina e
non conosce ancora le brutture degli uomini degeneri. Dapprima non
comprende, non sa, poi tenta un’inutile resistenza. Cornelia si difende
ma è sopraffatta. Sette ore di violenze ancestrali, sette ore di schifo e
di urla. Poi l’alba. Mirka e Cornelia non respirano più. Conviene
togliere di mezzo i cadaveri e ritornare nella boscaglia. Si scavano
venti centimetri di terra e si buttano le vittime. Le zolle fredde al
contatto delle carni riaccendono un barlume di vita e i due corpi
sussultano ancora. Ma è questione di un momento per i partigiani: a
Cornelia spaccano il cranio con il calcio del mitra e sul collo di
Mirka, la bambina, si abbatte uno scarpone che la strozza. La tragedia è
finita.
Sull’orizzonte si alza il sole, il sole insanguinato del 29 agosto 1944, a soli otto mesi dalla “liberazione”.
A mamma Maria Ugazio, il giornalista
chiede di fargli vedere un ricordo personale di Mirka. Allora gli fu
mostrato un album di famiglia un poco ingiallito dal tempo. Sul retro di
una foto scattata nei giardini dell’Isola Bella la mano infantile di
Mirka aveva scritto nel 1943 queste parole: «Al mio papalone che mi ha
portato a fare questa bella gita, la sua Mirka».
Per i comunisti i parroci erano tra gli
oppositori più efficaci, quindi molto pericolosi. Avevano confessionali
in cui sapere anche la verità sulla violenza rossa che, fuori, nessuno
osava dire.
Avevano pulpiti da cui parlare e
condannare, gente ad ascoltare. Erano organizzati con oratori, consigli
comunali, formavano diocesi. Quattro volte più numerosi di oggi, erano
disseminati ovunque. Più dei carabinieri, più dei farmacisti. Persino
più delle case del popolo. E se la loro parrocchia disponeva di benefici
terrieri, ebbene, erano da odiare due volte, una perché preti, l’altra
come padroni, e rientravano perciò doppiamente in quell’assunto che,
dalla fine della guerra, girò per anni tra le squadre d’azione
comunista, in cellula e nelle case del popolo:
«Se dopo la liberazione ogni compagno
uccidesse il proprio parroco e ogni contadino il padrone, il problema
sarebbe già risolto».
E non è vero che ad ogni don Camillo
rispondesse un Peppone. I primi furono tanti, dei secondi in questo
amaro viaggio di triangolo della morte non vi è traccia. Non c’è parroco
che non abbiano intimidito, isolato. Tantissimi furono scherniti,
derubati, rapinati. Ora io vi racconterò di quelli che, dopo aver già
tanto sofferto in tempo di guerra da tedeschi, fascisti e partigiani
rossi, sono stati martirizzati in tempo di pace dalla violenza
comunista. Nell’allora folto branco di parroci può magari scapparci, che
so, lo scapestrato, il disattento, l’arricchito. Non però tra le decine
uccisi.
Ogni assassinato è perbene. E tra i più
attivi, equilibrati, generosi, attenti alla propria gente. E’ seguito,
amato, perciò un maledetto nemico del popolo, dunque va soppresso,
distrutto e che ogni assassinato sia esempio per gli altri, che tengano
la bocca chiusa. E c’è un motivo, più d’ogni altro: essi hanno in sé e
con sé Dio.
Il 25 aprile è la Liberazione, la fine
della guerra, e da adesso i parroci dell’Emilia Romagna, ma anche delle
regioni vicine, ogni sera, nell’ultimo segno della croce, non sanno se
rivedranno l’alba o se capiteranno in casa gli assassini, come accade la
sera del 16 gennaio ’46 a don Francesco Venturelli, arciprete di
Fossoli, nel Modenese vicino Carpi.
E’ stato cappellano nel campo di
concentramento della sua parrocchia, è un tipo che non chiede che
tessera politica hai, che assiste tutti quanti, inglesi, fascisti,
partigiani, collaborazionisti. E’ uno che dopo la Liberazione detesta la
brutalità e gli eccidi che si ripetono nel Carpigiano contro fascisti e
presunti fascisti. E dunque è sera, uno sconosciuto lo chiama fuori di
canonica chiedendo di accorrere per un incidente mortale sulla
provinciale. Don Francesco corre e si trova invece davanti a un plotone
di rossi che lo falcia col mitra.
Invece don Gianni Domenico, trentenne,
celebra messa ai giovani soldati repubblichini. Il 24 aprile ’45
all’arrivo degli alleati corre tra la sua gente a San Vitale di Reno: in
chiesa lo stanno aspettando i partigiani comunisti, lo gettano in un
porcile, lo denudano, lo violentano. Ci sono anche donne tra loro, e una
in particolare, è la più ardente nel seviziarlo. Il lungo martirio si
conclude a colpi di mitra e ai parrocchiani si impedisce per giorni di
seppellire il martirizzato.
Don Giuseppe Tarozzi è parroco a Riolo di
Castelfranco, diocesi di Bologna, severissimo nell’amministrare
un’opera pia fa il diavolo a quattro per tener lontano da essa la
politica e ladri. Notte del 25 maggio ’45: i commandos comunisti
fracassano a colpi di scure la porta della canonica, lo strappano dal
letto, lo pestano, poi lo trascinano via in camicia da notte. La gente
vede un’ombra bianca sospinta fuori a calci, il suo cadavere non sarà
mai più ritrovato.
Ancora diocesi di Bologna: don Giuseppe
Rasori, sessantenne a San Martino Casola ha solo due parrocchiani non
iscritti al PCI. Sberleffi, minacce, assalti alla chiesa. Vive nella
paura ma resta. Nel pomeriggio del 2 luglio ’46 in canonica, dove in
guerra ha nascosto tanti partigiani, lo ammazzano con un colpo di
pistola al collo. Il suo successore poco tempo dopo in chiesa parlando
della passione di Gesù accenna allo straccio rosso con cui fu coperto
per derisione. Deve fare ripetute e pubbliche scuse, i comunisti l’hanno
presa come ingiuria alla loro bandiera.
Don Alfonso Reggiani, parroco di Anzola
di Piano, Bologna, il 5 dicembre ’45 sta pedalando di ritorno da una
visita ai suoi ammalati, lo fermano in due, l’ammazzano a raffiche di
mitra, se ne vanno sulle biciclette. Una cigola e gli assassini dicono:
«L’ungeremo a casa, adesso che abbiamo ammazzato il maiale». Al funerale
di don Alfonso, reo di battute umoristiche sui comunisti, ci sono solo
cinque bambini e qualche donna.
Un prete semplice, conciliante, don
Enrico Donati, ma è parroco a Lorenzatico, Bologna, della famiglia del
sindacalista bianco Giuseppe Fanin, che sarà massacrato, nel ’48 a colpi
di spranga dai comunisti. Il 13 maggio ’45 quattro compagni con la
scusa di portare don Donati al comando partigiano per formalità, lo
feriscono a colpi di mitra, gli legano le mani, lo infilano in un sacco e
lo gettano con due sassi per zavorra in un macero colmo d’acqua.
La sera del 25 luglio ’45 un altro
comando chiama don Achille Filippi, parroco di Maiola, sull’uscio della
chiesa e l’uccide: cancellando anni ed anni di lavoro e bontà per la
gente, le colonie per i bambini, la povertà degli anziani. Ma il gran
farabutto in chiesa biasimava le violenze e i soprusi dei comunisti; a
morte.
Già un altro era stato condannato a morte
un mese prima della Liberazione a Santa Maria in Duno per aver
rinfacciato ai partigiani rossi efferatezza durante la guerriglia: il
primo marzo ’45 si presentano due armati travestiti da tedeschi,
irrompono in canonica con due donne anch’esse armate, dicono di essere
di un comitato, legano Don Corrado Bortolini, rubacchiano e poi lo
portano via in motocicletta. Mai più trovato, anche se tutti sanno che è
stato torturato, strangolato, gettato in una fossa. Al suo successore
c’è chi ammonisce di non interessarsene: «Tanto don Corrado dorme in un
campo di fiori».
Don Tino Galletti, nella chiesa di
Spazzate Sassatelli, a Imola, è un altro che non parla bene dei
comunisti in una parrocchia rossa, non più di sei persone alla messa
domenicale. Il 9 maggio ’45 è ucciso a colpi di pistola e per non
mandarlo via da solo ammazzano anche tre dei suoi sei fedeli. Non un
cane ai funerali.
Implora pietà invece don Luigi Lenzini,
parroco di Crocetta di Pavullo, nel Modenese, la notte in cui un gruppo
di comunisti, gente del paese, lo trascina in camicia da notte dalla
canonica alla vigna e qui lo seviziano da stramaledetti e poi gli
spaccano la testa: ha condannato il metodo di «far fuori la gente» dei
comunisti.
Freddati a pistolettate il parroco di
Mocogno e di Montalto, cioè il canonico Giovanni Guizzardi e don
Giuseppe Preci, nel Modenese. Morte lenta per l’anziano don Ernesto
Talè, parroco di Castellino delle Formiche, modenese, e per la donna che
stava accompagnandolo da un ammalato, «quella carogna non voleva morire
… », dirà al bar, vantandosi con gli amici, uno dei “coraggiosi
partigiani” torturatori del prete.
Nel Reggiano non ammettono gli eccessi
disumani di chi, partigiano comunista, scredita il movimento di
Resistenza e sono freddati col mitra don Giuseppe Lemmi, cappellano di
Felina e don Luigi Manfredi, parroco di Budrio.
E’ il 14 settembre ’45, l’assassino che
spacca il cranio a don Tebaldo Dapporto, parroco di Casalfiumanese di
Imola, corre alla Camera del Lavoro a vantarsi d’aver fatto fuori il suo
prete-padrone.
Don Carlo Terenziani, prevosto di
Ventosa, la mattina del 29 aprile ’45 è preso dai partigiani rossi che
lo fanno girare per le strade come un Cristo schernito, sputato,
ingozzato di vino all’osteria, battuto e infine fucilato a sera.
Don Giuseppe Pessina, parroco di San
Martino di Correggio, piange diciannove parrocchiani assassinati dai
comunisti e sa troppe cose: ucciso a colpi di mitra mentre la sera del
18 giugno ’46 rintocca l’Ave Maria… Purtroppo, l’elenco delle vittime
delle radiose giornate non finisce qui,
tanti preti martiri in Emilia, tanti Toscana e in altre regioni…
Tutto questo orrore non vi è bastato?
Credete ancora alla favola dei partigiani combattenti per democrazia e per la libertà?
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