domenica 8 maggio 2016

E’ STATO SOLO UN SOGNO?




E’  STATO  SOLO  UN  SOGNO?

Ma chi glielo ha fatto fare?

di Filippo Giannini
La documentazione per la compilazione di questo articolo è stata ripresa da un mio precedente pubblicato alcuni anni fa su “Storia Verità”.

   Sì, forse è stato solo un sogno. Ebbe inizio quando i ragazzi non si tingevano i capelli di blu o rosa, quando non si imbullonavano la testa o le guance o il naso, quando il tatoo era cosa da selvaggi quando, cioè i ragazzi erano orgogliosi della loro virilità e le ragazze della loro femminilità. 
Desidero proporre ai lettori vicende che sembrano proveniente da un sogno lontano e come tale facile da dimenticare. Al termine di questo pezzo, so bene che i ragazzi imbullonati e tatuati chiederanno con un sorriso da furbetti: <Ma chi glielo ha fatto fare?>. E visto come sono andate le cose, mi posso anch’io chiedere: <Sì, chi glielo ha fatto fare?>.
   Ecco come ebbe inizio.
   Nell’estate 1944 aerei angloamericani, insieme alle bombe, lanciarono dei volantini che annunciavano l’avvenuta esecuzione di giovani sabotatori appartenenti ai Reparti Speciali della RSI.
   Insieme alla logica del bombardamento a tappeto, il lancio di questi volantini, rientrava nella tecnica alleata della guerra del terrore. Infatti il padre di uno di questi giovani (Alfonso Guadagno) apprese in questo modo incivile l’avvenuta esecuzione del figlio.
   Interessante, dal punto di vista storico, il testo di questi manifestini da uno dei quali stralciamo una parte. Su un lato del foglio erano stampate le foto dei giovani giustiziati, sul retro venivano indicati i loro nomi, il luogo e la data di nascita. Il testo così continuava: <Prima di loro altre spie sono state passate per le armi, benché nei loro casi non furono buttati manifestini. Inoltre, altri ancora sono stati già catturati e finiranno davanti ai plotoni d’esecuzione alleati (…). Ma gli Alleati non possono essere generosi in casi di tale gravità. La legge internazionale ammette la pena di morte quale punizione dei reati di spionaggio e sabotaggio. Le Nazioni Unite intendono applicare questa legge (…)>. Il messaggio continua con altre minacce rivolte a quei giovani che avessero voluto seguire l’esempio dei catturati e candidati alla fucilazione.
   La legge internazionale alla quale gli Alleati nel loro volantino fanno riferimento, è quella dell’Aja, aggiornata con quella di Ginevra <(Art. 4) Gli illegittimi combattenti vengono dovunque perseguiti con pene severissime e sono generalmente sottoposti alla pena capitale. Nella guerra terrestre i franchi tiratori che operano nelle retrovie nemiche, infiltrandosi alla spicciolata sotto mentite spoglie, vengono passati per le armi in caso di cattura, lo stesso dicasi per i sabotatori>. Quindi, quei giovani appartenenti ai Reparti Speciali della Rsi, se catturati dagli Alleati sotto mentite spoglie (non in uniforme regolamentare) erano passibili della pena di morte. E nulla abbiamo da eccepire su tutto ciò. Solo una rapida e semplice considerazione: passibili della stessa pena, perché il reato era identico, lo erano anche i partigiani che operavano nel territorio della Rsi. In realtà il governo repubblicano agì con moderazione, perché la gran parte dei franchi tiratori fu rinchiusa in prigione (i più pericolosi considerati ostaggi a difesa di attentati), molti altri, dietro loro richiesta e previo formale impegno a non nuocere più alle Unità della Rsi, venivano inviati come lavoratori militarizzati nei Battaglioni Complementi. Nella maggioranza dei casi, questi mantennero il loro impegno sino alla fine delle ostilità.

   Dopo il disastro dell’8 settembre ’43, la resistenza contro le forze occupanti angloamericane nel Sud d’Italia fu condotta, oltre che da forze tedesche, da elementi fascisti. Nel contempo, a Nord, in seno alla nascente Rsi si formarono, oltre alle altre Forze Armate, Servizi Speciali, nei quali operavano giovani volontari, di entrambi i sessi che, superato il periodo di addestramento, venivano paracadutati o sbarcati da sommergibili o, ancora più semplicemente (ma audacemente) attraversavano le linee del fronte per operare con azioni di sabotaggio e raccolta di informazioni. Il numero dei volontari operanti in questi Reparti assommavano a circa 4 mila elementi e, di questi, tra i 70 e i 100 furono catturati e passati per le armi.
   La testimonianza di coloro che furono accanto a questi giovani negli ultimi istanti della loro breve vita, può offrire un quadro della fine stoica di alcuni di loro.
   In quegli anni di grande confusione morale è bene ricordare che quei ragazzi, come vedremo, provenivano da ogni regione d’Italia, dal Nord al profondo Sud.
   I primi.
   Mauro BERTOLI, nato a Massa Apuania il 23 giugno 1925 e Luigi CANCELLIERI nato a Monteroni di Lecce l’11 gennaio 1925. Entrambi reagirono con sdegno all’infamia dell’8 settembre e presentatisi alle autorità della Rsi espressero il desiderio di arruolarsi nei Servizi Speciali dell’Esercito repubblicano. Iniziarono immediatamente le missioni loro assegnate. Nell’ultima, nel dicembre 1943, furono catturati. Sottoposti a sevizie non rivelarono nulla che potesse compromettere le missioni degli altri componenti del loro Gruppo.
   La mattina del 21 gennaio 1944 vennero caricati su un camion e trasportati sul luogo dell’esecuzione in una cava di S. Angelo in Formis.
   Così don Nacca, parroco di S. Erasmo, che li assistette sino all’ultimo, li ricorda: <I supremi valori della fede cattolica furono per essi il viatico sicuro per affrontare sereni e coscienti la realtà ultraterrena (…). Un’ora prima della morte essi consumarono il pranzo rituale con un tal senso di giovialità da far pensare a me che tra la vita terrena e quella celeste per essi non c’era alcun distacco (…). Il Duce era per essi qualcosa di sacro e perciò meritorio della loro immolazione. Ricevuto l’ordine di uscire di cella per essere tradotti al posto dell’esecuzione mi raccomandarono ancora una volta: “Padre, dica alle nostre mamme che il nostro cuore non morirà, ma sarà sempre vivo e bruciante d’amore per esse (…)”. Affrontarono la morte senza scomporsi, con la fronte alta e senza paura>.
   Marino CANTELI, nato a San Giovanni in Persicelo (Bo) il 21 giugno 1922 ed Enrico MENICOCCI, nato a Marsiglia il 19 marzo 1923.
   Dopo la cattura, gli interrogatori e il giudizio, furono condotti anche loro, il 16 aprile 1944 nelle cave di S. Angelo in Formis, . Don Umberto Piccirillo, parroco di Portico, lasciò questa testimonianza: <Il 16 aprile 1944 Monsignor Beccarini, Arcivescovo di Capua, mi ordinò di recarmi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere per portare la parola di confort ai giovani  fascisti. Cantelli e Menicocci, ambedue condannati a morte nel marzo ’44 (…). Un nodo mi stringeva la gola. Dopo quasi otto mesi mi trovavo di nuovo dinanzi ai rappresentanti della vera Patria che dagli invasori venivano considerati come traditori, ma che dalla gente bennata erano considerati come veri e degni figli d’Italia. Li abbracciai in carcere e li confessai (…). Alle ore 9,45 siamo usciti dalle celle. Nel carcere, per ogni dove, si sentivano le grida degli altri carcerati che piangevano per la triste sorte dei loro fratelli (…). Alla cava di pietra, ai due paletti già pronti, furono legati con una fune. Una benda copriva i loro occhi ed un mirino venne posto sul loro cuore. I giovani avrebbero voluto essere liberati dalle bende per guardare ancora una volta, come essi dicevano, in faccia i loro giustizieri, perdonarli, forse, e morire ancora una volta guardando e salutando il bel cielo d’Italia, per la quale avevano sofferto e lottato. Una scarica di otto fucili li fulminò all’istante>.
   Il 30 aprile 1944 fu la volta di:
   Italo PALESSE, nato a Cavalletto d’Ocre (Aq) il 10 ottobre 1921, Franco ASCHIERI, nato a Milano il 26 aprile 1926, Mario TRAPOLI, nato a Roma il 4 giugno 1925, Vincenzo TEDESCO, nato a Napoli il 14 aprile 1925. Di questo gruppo Italo Palesse, a seguito di una recente trasmissione televisiva (Combat Movie), è noto perché su di lui si scagliò una menzogna comunista, poi smascherata. Questa ignobile vicenda sarà ricordata in uno dei prossimi articoli. Franco Aschieri, figlio di un noto architetto, quando fu catturato, essendo poco più che diciassettenne, fu portato in un campo di prigionia algerino poi, appena compiuti i diciotto anni, riportato in Italia per essere fucilato.
   Ecco come lo ricorda don Giuseppe Ferriero in uno stralcio delle sue memorie: <Li trovai che cantavano. Appena mi videro stettero zitti, e quando il cancello di ferro si aprì, mi si strinsero intorno. Il milanese e il romano erano biondi quello di Aquila bruno, robusto, con un’aquila sul petto. Il napoletano bassotto con i calzoni da ufficiale (…). Un militare della M.P. mi disse che avevo altri due minuti di tempo. “Siamo già pronti” fu la risposta , Li volli accompagnare sul luogo del supplizio. Uscii con due di loro, fra quattro M.P. americani armati. Il pianto dei camerati ci accolse all’uscita del corridoio (…). I due, il romano, studente in medicina e il napoletano risposero inneggiando all’Italia fascista (…). Arrivammo. Due pali in una partita di grano verde, dietro una cava di pozzolana (…). Eccoli vicino al palo, il romano si toglie la camicia. Mi dice che non vuole farsela bucare. Gli legano le mani. Ė sorridente (…). Passo al napoletano, sorridente, bruno, carino. Mi raccomandano le lettere che hanno scritto ai loro cari. Due soldati caricano i dodici moschetti. Un comando secco, puntano il fucile, un terzo comando ancora, parte la raffica. Vidi cadere i cari giovani, mi avvicinai a loro recitando tre Requiem e un De Profundis per ciascuno. Si vanno a rilevare li altri due, che arrivano alle 11,45. Appena mi vedono mi sorridono, hanno trovato un viso amico che è lì per confortarli. Quello di Aquila si toglie anche lui la camicia. Lo legano, desidera una sigaretta,  (…). Mentre lo legano, il milanese grida tre volte “Viva il Duce” e l’altro risponde “Viva!” E ancora: “Dio stramaledica gli inglesi!”. Io lo guardo e capisce: avevo detto loro di non odiare il nemico. Poi i soliti comandi secchi. Li vidi piegarsi pian piano. Ascoltai il loro rantolo: i colpi non erano stati precisi come la prima volta. Che strazio al mio cuore (…)>.
   Per la notevole carica di spiritualità contenuta nell’ultima lettera scritta da Franco Aschieri alla madre è doveroso citare, almeno, i passi più toccanti: <Cara mamma, con l’animo pienamente sereno mi preparo a lasciar questa vita che per me è stata così breve e nello stesso tempo così piena e densa di esperienze sensazionali (…). Ti prego, mamma, fai che il mio distacco da questa vita non sia accompagnato da lacrime, ma sia allietato dalla gioia serena di quegli animi eletti che sono consapevoli del significato di questo trapasso. Ieri, dopo che mi è stata comunicata la notizia, mi sono disteso sul letto ed ho provato una sensazione che avevo già conosciuta da bambino: ho sentito, cioè, che il mio spirito si riempiva di forza e si estendeva sino a divenire immenso (…). Non ho alcun risentimento per coloro che stanno per uccidermi perché so che non sono che degli strumenti scelti da Dio (…). Io resterò vicino a te per sostenerti e aiutarti finché non verrai a raggiungermi; perché sono certo che i nostri spiriti continueranno insieme il loro cammino di redenzione (…). In questo momento sono lì da te e ti bacio per l’ultima volta, con te papà  tutti gli altri cari che lascio. Cara mamma termino la lettera perché il tempo dei condannati a morte è contato fino al secondo. Sono contento della morte che mi è destinata perché è una delle più belle essendo legata ad un sacro ideale. Io cado ucciso in questa immensa battaglia per la salvezza dello spirito e della civiltà, ma so che altri continueranno la lotta per la vittoria che la Giustizia non può che assegnare a noi. Viva il Fascismo, viva l’Europa.

Franco>.
   Il 6 maggio 1944, a S. Maria Capua Vetere furono portati davanti al plotone d’esecuzione:

   Alfredo CALLIGARO, nato a Campolongo (Ud) il 16 agosto 1918; Domenico DONNINI, nato a Urbania (Ps) il 19 febbraio; Virgilio SCARPELLINI, nato a Ronica (Bg) il 22 gennaio 1925 e Giulio SEBASTIANELLI, nato a Cupramontana (An) il 13 agosto 1915.
   Anche il Comitato per le Onoranze ai Caduti della Rsi di S. Angelo in Cormis (come più avanti avremo modo di ricordare), nulla sa dei primi due, ma è accertato che tutti appartenevano alla X Mas.
   Di Virgilio Scarpellini si sa che dopo varie missioni, svolte con esito positivo, l’ultima affidata riguardava la polveriera di Aversa. Scarpellini riuscì a far saltare il deposito ma, mentre tentava di raggiungere il sommergibile che lo avrebbe riportato nelle proprie linee, fu catturato.
   Gli Allearti tentarono per 18 giorni di farlo parlare, ma non riuscirono ad infrangere la ferma decisione del giovane. Portato davanti al plotone d’esecuzione, accompagnato da don Alfredo Contini (che dopo pochi giorni morì) intonò l’Ave Maria di Schubert. Al momento del “Nuncet in hora mortis nostrae”, fu fulminato dalla scarica di dodici moschetti.
   L’ultima lettera fu inviata ai fratelli:
   <Muoio con l’animo tranquillo perché ho la coscienza di aver dato tutto, con slancio e devozione alla mia Patria, che ho amato più di me stesso, della mia famiglia e, forse di Dio. Fratelli cari, non maledite la mia Idea né il mio gesto: ho fatto quello che ogni italiano aveva il dovere di fare>.
   Ed ora un fatto che disonora l’etica militare degli Alleati: essi requisivano per svolgere i loro interrogatori, alcune villette isolate nei pressi di Napoli. Qui essi usavano torturare i giovani dei Servizi Speciali che cadevano nelle loro mani. Paolo POLETTI, nato a Firenze il 26 ottobre 1919, subì sevizie tanto atroci che impazzì. Il giovane fu ammanettato e richiuso in cella, ma urlava in continuazione, si strappava i vestiti da dosso, si graffiava. Gli americani escogitarono la soluzione Yankee: un giorno il Poletti, sempre in preda al delirio, poggiò le mani conto la  porta della cella che stranamente era stata dimenticata socchiusa. Il povero giovane, sempre urlando, uscì nel corridoio ingiuriando la guardia, la quale gli scaricò contro i colpi della sua pistola d’ordinanza. Il tentativo di fuga fu la giustificazione per eliminare un testimone pericoloso. Il suo corpo fu portato di nuovo in cella ove rimase per due giorni; dopo di che fu pigiato con forza in una cassa troppo stretta per contenere agevolmente la sua taglia.
   Alfonso GUADAGNO, nato ad Afragola (Na) il 7 aprile 1925, Ennio VIVIANI, nato a Verona il 18 settembre 1926 e Vito BERTOLOZZI, luogo e data di nascita ignoti, tutti e tre furono fucilati il 31 maggio 1944 a Nisida.  Andarono alla morte con ammirevole dignità. Ennio Viviani, data la sua giovane età non avrebbe dovuto essere portato davanti al plotone d’esecuzione. Condotto nel luogo del martirio “Morì cantando gli inni della Patria e inneggiando al Duce”.
   Il 21 giugno 1944 a Nisida è la volta di Pietro BRANBILLA, nato a Milano l’11 dicembre 1916: <Pregò e si fece legare al palo, affrontando la morte con coraggio e spirito di sacrificio>.
   Silvio BARTOLINI, nato a Piacenza il 29 gennaio 1920, venne fucilato il 24 agosto 1944. <Fatto sedere incappucciato su una sedia, morì gridando Viva l’Italia>.
     Carmelo FIANDRO, fucilato insieme ad altri tre; si ignorano i nomi di questi ultimi e il luogo dell’esecuzione.
   I Caduti sopra citati, riguardano fucilati nell’Italia centro meridionale. Man mano che il fronte si spostava verso Nord, l’attività dei Servizi Secreti si ripeteva quasi senza soluzione di continuità, quindi la cattura e, purtroppo, le esecuzioni.
   Il 26 novembre 1944 alle Cave Mairano (Fi) venne fucilato Ruy Blas BIAGI. Sempre a Firenze, il 6 dicembre 1944, Luigi PIRAS e Franco BERSELLI. Angelo LENCIONI, Mario MARTINELLI e Giuseppe BONI furono fucilati il 30 gennaio 1945. Goffredo AGOSTINI, Raffaele VENTURINI e Giorgio SIMINO caddero il 14 febbraio 1945. Domenico MUSCATIELLO e Ermete BENVENUTI vennero fucilati alla vigilia di Pasqua pochi giorni prima della fine della guerra.

   Franco SABELLI e Armando TESTORIO entrambi romani furono gli ultimi ad affrontare il plotone d’esecuzione. L’8 settembre ’43 non accettarono la resa e si arruolarono nelle SS. Quando Roma cadde sotto l’occupazione alleata, i due restarono in città per svolgere azioni di disturbo e trasmettere informazioni. Identificati furono condannati a morte e fucilati il 26 giugno 1945. L’esecuzione avvenne a Forte Bravetta, prima della scarica mortale alzarono il braccio al saluto romano e intonarono Giovinezza. Questo fatto, già di per sé drammatico, si arricchì di un altro episodio sublime: poche ore dopo l’esecuzione, la giovane moglie di Testorio, Nella si uccise gettandosi da una finestra della sua abitazione. Sul suo corpo venne trovata una lettera il cui testo riportiamo integralmente:

   <Il 26 giugno 1945. Raggiungo mio marito all’al di là. Mai più nessuno potrà fucilarmelo, mai più nessuno potrà dividerci: in ciò i signori comunisti sono impotenti. E voi, ministro Togliatti che sino all’ultimo siete voluto essere vigliacco come tutti i vostri degni compagni allungando inutilmente lo spasimo di due vite che vivevano l’una per l’altra, possiate essere maledetto. A me spetta l’eterna felicità, egli mi attende. Desidero che siano rispettati tutti i desideri di mio marito, e che vengano con me le foto del nostro adorato bimbo e dell’unico uomo che nella mia vita ho amato. Gualtieruccio caro, mamma e papà veglieranno sempre su di te.

   Nella Testorio. A morte il comunismo!>.
   Una valida testimonianza è offerta da un volume, ormai introvabile e scritto nel dopoguerra, dal titolo “Madre Lotta” di Rico Novella di Bari. Questi faceva parte dei Servizi Speciali, fu catturato e scampò al plotone d’esecuzione perché, all’epoca appena diciassettenne. Conobbe molti giovani richiusi con lui nelle carceri di S. Maria Capua Vetere e ci ha lasciato preziosi ricordi. “Madre Lotta”, pagg. 36-37: <(…). Ma ecco ancora rumori di chiavistelli ed il cancello si apre: è il rancio speciale per Rico, minorenne (…). Il cancello si riapre, entra un ufficiale americano e consegna ai tre dei fogli di velina, uno per uno: sono degli ordini di comparizione in giudizio e contengono i capi di imputazione che sono uguali per tutti. La causa è fissata a quattro giorni dopo (…). Il difensore, un capitano dell’esercito inglese arriva il giorno prima del processo: “Siete stati arrestati in divisa?”Chiede “No” risponde Mauro (Mauro Bertoli, ndr) “Eravamo in borghese” “Allora non c’è alcuna speranza” Replica l’inglese e  si accomiata.

   Il processo comincia l’indomani in un’aula del Tribunale di S. Maria Capua Vetere a porte chiuse e dura due giorni.

   Un interprete dell’esercito americano traduce in uno sgradevole italiano: “Siete condannati a morte per fucilazione a mezzo moschetto”. Vi è un moto impercettibile di Mauro verso Rico “Stai su” gli sibila senza girarsi “Stai tranquillo, è passata”; gli risponde Rico, immobile anche lui. I tre giovani vengono accompagnati all’uscita e, su una camionetta, ricondotti in carcere.

   La camerata, solitamente fredda, ha un tepore accogliente quella sera.

   “Scusami per un momento fa”, dice Mauro a Rico appena soli “ma ti ho visto impallidire”.

   “Avevo capito già prima”, spiega Rico “avevo afferrato la parola ‘dead’, ma quel porco di interprete l’ha detto in un modo…! Ho dovuto farmi forza per non vomitare” (…). Speriamo che ci facciano scrivere a casa” dice Mauro “vorrei preparare mamma”.

   (…). Sono in attesa Mauro e Gino (Luigi Cancellieri, ndr) silenziosi, alla finestra della cella numero 1. Nel cortile sostano chiacchierando fra loro gruppi di ufficiali americani, inglesi, italiani e alcuni civili. La porta di accesso al cortile si apre per lasciare entrare un nuovo gruppo di ufficiali alleati: sono insieme per una ragione. Attraversano tutto l’atrio e si avviano all’ingresso dell’ala che ospita i ragazzi. Rico sente, dai loro passi che oltrepassano la porta della sua stanza: sono diretti alla stanza n. 4; vi entrano e un interprete traduce a Mauro e a Gino, in piedi, il dispositivo della sentenza che sarà eseguita quella mattina.

  Due preti si sostituiscono agli ufficiali.

   “Sei pentito di quello che hai fatto?”.

   “Non ho nulla da pentirmi, se fosse necessario tornerei a servire l’Italia allo stesso modo”.

   “ Desiderate qualcosa in particolare?” Domandano prima di accomiatarsi,

   “Se fosse possibile una buona mangiata”, dice Gino “Ė quasi mezzogiorno! Ma non ho più alcun  appetito”.

   Quando un sergente americano arriva con un grande vassoio, aiutato da Mauro, Gino raccoglie tutto nelle scodelle del carcere e le depone sulla brandina di Rico, poi si fruga le tasche, ne estrae le poche sigarette che gli hanno offerto quella mattina e le depone accanto alle scodelle, coi cerini.

   Quando li portano via, passano davanti ala porta della cella n° 1, ma sono ormai lontani da ogni cosa; dietro la porta della cella, Rico è appeso col corpo abbandonato, con le mani serrate sulle sbarre della finestrella. Ė un bene che non abbia avuto la forza di tirarsi su, forse avrebbe gridato, forse avrebbe urlato, forse avrebbe turbato i suoi fratelli.

   Riesce ad arrivare alla finestra del cortile e li vede andare, dritti come uomini, ognuno fra quattro nemici. Legati al palo, Mauro si affloscia solo dopo la scarica.

   A Gino, prima del fuoco, manca la forza fisica nei ginocchi, il capo incredibilmente ricciuto, è eretto (…).>.

***    
   Nello svolgere le ricerche di questo lavoro, con rammarico ho notato che mancano notizie sulle identità, sul luogo di sepoltura e su ogni altra informazione riguardante tanti giovani dei Reparti speciali che affrontarono la morte ad opera degli angloamericani. Alcune salme di questi militari della Rsi sono state recuperate grazie all’ammirevole dedizione del “Comitato Sezionale per le Onoranze ai Caduti della Rsi fucilati dagli angloamericani a S. Angelo in Fortis nel 1944”, con sede in S. Maria Capua Vetere. Ma la nobile iniziativa sostenuta dal Capitano Vittorio Corradini, dalla famiglia Sparaco, dalla signora Ponticelli, dal dott. Piccirillo, dal dott. Acquaroli e da tutti i componenti il Comitato che dovrebbe essere sostenuto da organismi che dispongono di maggiori poteri. In caso contrario la memoria di tanti ragazzi che con tanto amore hanno donato la loro vita, andrà perduta.


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