martedì 10 maggio 2016

I NOSTRI EROI! CARLA COSTA 17 ANNI


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Carla Costa


FUGA PER ARRUOLARSI

Mi iscrissi alle Squadre giovanili Onore e Combattimento (Federazione di Roma) per il corso di infermiera. Ma non ero ancora soddisfatta: sognavo di più volevo di più!... la Patria muore... Il mio pensiero dominante era quello di poter andare al fronte.

Chiedevo a tutti, interrogavo tutti... e fu proprio in Federazione che sentii parlare di "un Colonnello che arruolava anche donne"... "E dove sta, questo Colonnello?". "Non so di preciso, ma mi hanno detto che è in Piazza Colonna, al Palazzo della Stampa".
Quando mi si disse di passare, il Colonnello era in piedi vicino alla finestra e mi parve di un'imponenza statuaria. Mi chiese burbero cosa ero andata a fare ed interruppe il torrente delle mie parole con una sferzata quasi ironica: "Ma qui si muore, lo sai? Si sedette dietro la scrivania e disse che il suo era un Reparto Speciale, che anche le donne erano tenute alla più rigida disciplina militare e che anche loro affrontavano la bella morte sul campo e la brutta morte davanti ad un plotone d'esecuzione: giacché , per noi la prigionia non è mai un sistema per riportare la buccia a casa, per noi la prigionia è il principio della fine. Sarai processata, condannata a morte e fucilata nello spazio di trenta giorni. Ma puoi essere fiera: sarai fucilata al petto. E' la morte dei soldati".
La selezione era rigorosa: occorrevano volontari di sicura fede, di volontà tenace e di un coraggio cosciente del pericolo, perché quei volontari avrebbero portato la guerra, la loro guerra, nel territorio occupato dal nemico.
Quello del Colonnello De Santis era infatti un Reparto Speciale della GNR e dell'Esercito. In RSI, i Reparti Speciali hanno avuto una particolare importanza e un notevole sviluppo perché, a causa dell'insufficienza di mezzi -specie per quanto riguarda l'aviazione- si fece sentire la necessità di sopperire alla penuria di materiale meccanico con mezzi umani. E mentre il nemico inviava ovunque e senza tregua i suoi aerei da ricognizione e da bombardamento, l'Esercito Repubblicano, povero di mezzi e ricco di valore, inviava i suoi informatori, i suoi guastatori, i suoi sabotatori: Legionari che volontariamente e coscientemente offrivano sé stessi per una missione spesso senza ritorno.
Per le missioni da svolgersi lungo la linea del fuoco e nelle immediate retrovie nemiche, oppure quando si trattava di un gruppo e non di un solo sabotatore o ricognitore, gli Agenti Speciali indossavano la regolare divisa.
Per le missioni lontano dal fronte e nell'interno del territorio invaso vestivano necessariamente in borghese, ma avevano in tasca un autentico documento di riconoscimento. Il soldo era di mille lire al mese.
Traversavano le linee in qualsiasi ora del giorno. Erano decisi a tutto: vivevano in continuo pericolo di vita: cadendo prigionieri, dichiaravano la loro fede e si chiudevano poi in un ostinato silenzio; né minacce né lusinghe né torture hanno potuto strappare loro nomi di altri Volontari.
Processati e condannati a morte, andavano al supplizio come se andassero verso il trionfo. Chiedevano di non essere bendati e morivano gridando Viva l'Italia.
I migliori di noi sono caduti. Noi superstiti abbiamo sfiorato la morte più volte (quella sul campo e quella al palo). Non ci siamo mai abbassati a rinnegare alcunché nemmeno davanti ai Tribunali che, dovevano condannarci. Abbiamo passato anni nelle patrie galere, con condanne che andavano da 10 anni all'ergastolo. Se non siamo morti e se siamo già liberi, non dobbiamo ringraziare nessuno, perché nulla abbiamo chiesto a nessuno. Se domani la Patria ci chiedesse ancora di buttare la nostra vita allo sbaraglio, perché un invasore strapotente calpesta il suolo italiano e perché l'Italia non ha mezzi sufficienti per resistere, agiremmo come abbiamo agito, certi di non mancare alle leggi della lealtà e dell'onore: non siamo pentiti.
Al Comando l'atmosfera si faceva sempre più rovente. Tornavano i primi Volontari da Cassino, da Anzio, da Nettuno. Raccontavano con una semplicità sconcertante le più straordinarie avventure e le reclute mordevano i freni. Chiesi al Comandante di arruolarmi definitivamente. Mi rivolse alcune domande di carattere personale: dovetti dire che ero figlia unica e che i miei non volevano lasciarmi partire. "Quanti anni hai?". "Diciassette". "Non posso prendermi la responsabilità di arruolare una minorenne contro la volontà dei suoi. Ottieni il permesso e poi ne riparleremo". Fu irremovibile ed io vedevo crollare tutte le mie speranze. I miei si insospettirono e cominciarono a sorvegliare ogni mio movimento. Scappai. Era la sera del 2 giugno 1944: il Comandante mi diede una divisa, ma volle avvertire la mia famiglia. Riuscì ad avere la comunicazione a notte inoltrata: so che tentò di convincere mia madre, che dall'altra parte dei filo piangeva: il Comandante promise di rimandarmi a casa.
La mattina seguente, quando ci fu data la sveglia, il Colonnello era già chiuso nell'ufficio: distrusse parte dei documenti e messo il resto in una borsa diede l'ordine dello sgombero. Ci trasferimmo alla Caserma Ferdinando di Savoia, vicino alla Stazione Termini.
Era la fine. Passammo la notte dal 3 al 4 fuori Caserma pronti per la partenza. Roma, nel suo muto spavento sembrava accorgersi solo allora della guerra. Non una voce, non una luce: per via Nazionale lo scalpiccìo dei cavalli della colonna che trasportava verso Nord i feriti. Al mattino del 4, in Caserma e in ordine di marcia. Aerei nemici gettavano manifestini: "Italiani, sabotate l'esercito fascista in fuga...... Ma nella nostra ritirata nulla aveva l'aspetto di una fuga."
Giunse il Comandante: "Dovevamo partire con un camion e tre macchine: ci stringeremo perché due delle macchine sono introvabili: qualcuno ha avuto paura. Resti pure". Mandò avanti con Katia e le ragazze la macchina rimasta. Fece caricare sul camion viveri per alcuni giorni e vi fece salire gli uomini. Si rivolse a me e mi esortò a tornare in famiglia, mantenendo così la promessa fatta a mia madre. Diede l'ordine di partire e salì in cabina accanto all'autista. Fu un attimo: il camion era già in moto, mi aggrappai alla sponda posteriore e saltai dentro. I Camerati mi fecero posto e mi misero tra le mani una rivoltella: "Se noi spariamo, spara anche tu devi premere il grilletto". Il Comandante non si era accorto di nulla. Percorremmo via Nazionale, passammo per piazza Venezia ed istintivamente gettammo lo sguardo al balcone. Voltammo per il Corso e raggiunto Ponte Milvio, prendemmo la Statale n. 3, Flaminia. Roma nel giro di poche ore sarebbe diventata bivacco di truppe di colore. Raggiungemmo Milano il 9 giugno, stabilendoci provvisoriamente nella caserma della già 2411 Legione MVSN in via Vincenzo Monti. Vi fu la cerimonia del giuramento dei nuovi arruolati: tesi il braccio verso il Tricolore e pronunciai le parole di rito "Nel nome di Dio e dell'Italia, giuro ... ".
Per accordi tra il Comandante e il Capo del Reparto tedesco Kora di Viale Monza seguimmo presso tale Comando il corso d'istruzione su uomini e mezzi militari alleati. Seguii due turni contemporaneamente, un giorno uno e un giorno l'altro, uno per l'Esercito e uno per l'aeronautica (non seguii le lezioni per la Marina) perché ero già stata assegnata ad un settore interno). Il corso si proponeva di metterci in grado di riconoscere reparti e dispositivo nemici. L'istruzione verteva dalle notizie più semplici (distinzione di gradi e di unità) sino a quelle più complesse riguardanti i mezzi più perfezionati. Terminai il corso verso la fine di luglio.

MISSIONE DI FERRAGOSTO

La sera del 6 agosto ero di guardia. Arrivò Gianna "Il Comandante mi ha mandato a sostituirti. Ti vuole in ufficio". "Partirai stanotte -esordì il Colonnello. Sei destinata ad un settore tenuto dalle truppe tedesche: andrai a ritirare oggi la parola d'ordine e il fazzoletto che serviranno a farti riconoscere e che ti daranno diritto al loro aiuto: ti accompagneranno sino in vista del nemico. Missione di prima linea: Firenze e dintorni".
"La città resiste ancora ma il nemico è già penetrato nella zona di qua d'Arno. Hai avuto istruzione e addestramento: sai cosa devi fare e quali sono i nostri scopi.-gira, osserva, annota mentalmente truppe, armi, spostamenti nemici. Ti tratterrai tre giorni e rientrerai. Buona o cattiva che sia la tua fortuna, comportati bene".
Ritirai la parola d'ordine: Gero 106, una parola di nessun significato, comune a tutti i Reparti in collegamento con quel Comando tedesco, seguita da un numero che distingueva gli Agenti.
Avrei potuto dare la parola d'ordine soltanto ad un ufficiale: per evitare eventuali equivoci con i soldati mi venne consegnato un insospettabile fazzoletto bianco con orlo a giorno contenente un inchiostro simpatico. Scesi verso Firenze accompagnata da un solo soldato: la macchina non poteva proseguire. Montammo in motocicletta e, saltando da una buca all'altra, giungemmo a Villa Palmieri alle porte di Firenze. La maggioranza dei soldati era sistemata nelle cantine. Un capitano indicò un punto della carta: "Qui c'è un ponte -mi spiegò- l'estrema punta tenuta ancora dai nostri soldati. Il nemico tenta una manovra aggirante, ha già occupato Campo di Marte: i nostri, se non vogliono rimanere accerchiati dovranno presto lasciare la posizione. E' già tutto minato".
"Vi accompagneremo fino al ponte e quando avremo chiuso i cancelli alle vostre spalle sarete in territorio ostile. Davanti a voi si apre un largo viale alberato, Viale Regina Vittoria, che sbocca in Piazza Cavour. In via Cavour troverete il primo comando nemico".
Il 14 mi diedero per guida una Camicia Bruna. Scendemmo verso la città. Le strade erano deserte, le case abbandonate. Gli scarponi chiodati della mia guida risuonavano sinistramente. Sul ponte una casa semidiroccata serviva di ricovero ai pochi soldati rimasti. Il ponte era sbarrato da una doppia cancellata. Fu scambiata la parola d'ordine. Aperto il primo cancello, venne nuovamente sprangato. Entrammo in casa: un breve corridoio e una parte di quella che era stata una cucina. Un sergente mi assicurò che non avrebbero sparato per darmi il tempo di raggiungere Piazza Cavour. "Voi, comunque, appoggiatevi al muro". Uscimmo insieme, ci avvicinammo al secondo cancello, mi indicò il tratto che avrei dovuto seguire al mio ritorno. “Non dimenticatevene, il ponte è minato". Aprì il cancello, mi diede la mano e... "Buona fortuna, camerata!". Era ancora buio, e mi misi a correre piegate in avanti."Raggiunsi senza incidenti la fine del viale: oltre Piazza Cavour iniziava la zona sotto occupazione. Se avessi potuto raggiungerla, sarei potuta passare inosservata.
Il cielo si schiariva. Sentivo venire dal centro i primi ansimi della città. Salii lungo il mio muro, mi sollevai e portai i piedi al di sopra e da lassù spiccai un salto, attraversai di corsa la Piazza deserta ed imboccai via Cavour con passo affrettato ma calmo.
"Correte i fascisti sparano dalle finestre!" L'insperato aiuto di Camerati che non conoscevo mi aprì la strada verso il Duomo e mi diede la consolante sensazione di non essere poi tanto sola in quella città invasa ...
A mezzogiorno gli americani avevano terminato il ponte militare gettato sui piloni dell'ex-ponte Santa Trinita. Per i civili niente. Anch'io passai più volte avanti e indietro, saltando nell'acqua tra le macerie.
Girai tutto il giorno per Firenze: verso sera ero in Piazza Santa Maria Novella: un partigiano davanti alla bella Basilica aveva attirato un gruppetto di persone. Mi avvicinai anch'io: "Li abbiamo ammazzati subito, tutti e dieci... Qui, vedete?". Ed indicava sul selciato larghe tracce di sangue.
Voltai a caso in Via degli Orti Oricellari. Al numero 25 una scritta bilingue, che proibiva l'ingresso ai militari, attirò la mia attenzione. "E' una casa di suore... fra di loro non desterò sospetti..." e allungai la mano al campanello. Fui accompagnata dalla Superiora, la quale, ascoltata cortesemente la mia richiesta chiese allarmata. "Non sarete mica fascista, vero?". "No, certamente" risposi con sforzo. "Sapete, non per cattiveria ma di fascisti non ne possiamo assolutamente alloggiare".
La mattina di Ferragosto ripresi il mio giro: un gruppo di fascisti era asserragliato in Stazione. Al pomeriggio vi fu l'ordine alleato di consegna delle armi. A Campo di Marte, il 16, notai grandi rinforzi di artiglieria. Avevo mentalmente Notato ogni particolare di carattere bellico secondo le istruzioni ricevute: la missione era ormai al termine e la sera del 16 verso il tramonto presi la strada che doveva riportarmi al ponte. Arrivai in piazza Cavour senza che nessuno mi dicesse nulla. Sulla mia destra, dall'altra parte, si apriva viale Regina Vittoria, la terra di nessuno. "Ehi voi! dove andate?". Non mi voltai affatto, scattai come una molla. Mi buttai al centro della strada ed attaccai la corsa più veloce di tutta la mia vita. Sentii il fischio acuto di qualcosa che mi raggiunse e mi sorpassò: il gruppo alle mie spalle aveva aperto il fuoco dando così l'allarme. Gridavano e sparavano all'impazzata prendendomi di mira, ma nessuno aveva il coraggio di venirmi a fermare nel mezzo della strada. La mitragliatrice sul ponte, anche se silenziosa, appoggiava ugualmente il mio ritorno.
Divoravo la strada inseguita da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa sul ritmo di quella musica forsennata. Mi mancava poco ormai... ancora due traverse, ancora una... I tedeschi si erano affacciati all'unica finestra che dava sul viale per seguire la scena... li distinguevo già bene... Giunsi con il fiato grosso alla fine del viale, attraversai senza rallentare lo spazio davanti al cancello chiuso, mi arrampicai come una scimmia sulle sbarre dello stesso, puntai le braccia, saltai dall'altra parte.
Ricordai l'ultima raccomandazione del sergente ("il ponte è minato"). Tenni la sinistra, rasentando poi verso destra il muro della casa, girai l'angolo e piombai come un bolide in mezzo ai soldati che mi aspettavano. Ero salva!
Mi accompagnarono a Villa Palmieri e di là verso Milano, ospite dei Tedeschi presso Bologna, attendevo la macchina del mio comando, ero in giardino a godermi il fresco, quando vennero a chiamarmi: avrei rivisto il Colonnello e i Camerati: finalmente!


PROCESSO A FIRENZE

Divenni la “Signorina Non So”. Il magg. Spingarn ordinò il digiuno: “sino a quando non avrete parlato”. All'ora di pranzo, apparecchiarono il tavolino davanti a me per una delle due ausiliarie americane che dormivano a turno nella mia stanza. Questa, non appena seppe la verità, arrossì violentemente, buttò indietro la sedia uscendo quasi di corsa. Mi spiegarono che la signorina non conosceva gli ordini e che comunque “non si prestava al gioco”. Fu il magg. Spingarn in persona che, per stuzzicare maggiormente il mio appetito, divorò sotto i miei occhi un fumante piatto di spaghetti...
Dopo l'ordine del digiuno arrivò quello della veglia: dovevo rimanere seduta senza appoggiarmi al tavolino, senza dormire: dovevo “meditare e convertirmi, dovevo parlare”.
La sera del 27 ottobre (era già molto tardi) entrò nella stanza il maggiore Spingarn: “Credete in Dio?” “Sì”. Il maggiore trovò da obiettare qualcosa (mi aveva già detto di essere ebreo, in ossequio non so se alla verità o se ad un particolare sistema di pseudo-minaccia). “Desiderate un confessore particolare?” “No, per me è lo stesso”. Bene, vi manderemo il parroco di Tavarnelle. Domattina alle 6 vi fucileremo. Così festeggerete degnamente il 23' anno dell'Era Fascista». Risposi: “Onoratissima”. Il parroco non venne mai. La mattina dopo arrivò invece il maggiore con il seguito, ostentando per l'occasione una magnifica grinta scura. Credevo fosse giunta l'ora. Spingarn annunciò: “Per ordine del Comandante Supremo non vi dovremo fucilare finché non avrete parlato... Diteci i nomi dei vostri complici ... parlate... la guerra è perduta per voi ... perché continuare a combattere?... noi sappiamo tutto; noi siamo i padroni del vostro Paese... Il Fascismo è morto... perché sacrificarvi inutilmente? ...” Non avevo niente da dire e quindi rimasi in silenzio domandandomi perché mai mi guardassero tutti a quel modo senza giungere alla conclusione. Finalmente Spingarn chiese: “Non dite almeno qualcosa del fatto che vi lasciamo ancora un po' di vita?” Ah! ora avevo capito! aspettavano forse i miei commossi ringraziamenti. Inscenarono poi una commedia per comunicarmi che a . . Il 9 novembre dalle Carceri di Santa Verdiana in Firenze fui tradotta alle Mantellate di Roma. Gli ordini furono severissimi: segregazione assoluta e pane ed acqua sino a nuovo ordine.
Saltavano così il vitto passato dagli alleati ai loro prigionieri in Roma, il supplemento carcerario per i minorenni e l'unica minestra regolamentare delle ore 12. ...E gli interrogatori continuavano. Il 25 fui nuovamente trasferita a Firenze: ogni traduzione mi costò sempre un digiuno di 30-36 ore.
Il ritmo degli interrogatori si andava ormai allentando. A fine novembre avvenne l'ultimo, prima del processo: fu l'interrogatorio più scabroso. Fu il finale estremo di tutta la lunga serie: un confronto. Questa volta l'americano non fece la topica degli avvertimenti (fu un caso o fu il frutto delle lezioni passate?) ma preparò la scena con accortezza. Entrando nel parlatorio di Santa Verdiana ebbi davanti a me una Camerata e l'ufficiale avversario. Sentii qualcosa stringermi lo stomaco: davanti a me era Mirella, l'impaziente minorenne che avevo conosciuto negli ultimi giorni della mia permanenza a Milano e che con tanto entusiasmo si era preparata alla lotta... Ci scambiammo un rapido sguardo superficiale.. Mirella non batté ciglio ed io sedetti rispondendo tranquillamente al saluto del maggiore, che non mi aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Alla sua esplicita domanda ci osservammo finalmente con l'attenzione di chi cerca tratti noti in un volto sconosciuto... il risultato dell'esame fu nullo: negai di conoscerla e Mirella fece altrettanto nei miei riguardi. Il maggiore strabiliò: in base ai dati in loro possesso dovevamo conoscerci per forza. L'americano, non ci credette. Sbraitò a vuoto per un pezzo: finalmente mi congedò. “Gli italiani hanno la pessima abitudine di dire bugie!!”. Così si chiuse la mia istruttoria. Posso dire di essere stata ben fortunata, come sempre: oggi, quando incontro il Camerata che mi mostra le cicatrici delle bruciature e delle percosse ricevute, mi vergogno di essermela cavata così liscia.
Alcuni giorni dopo, Mirella ed io ci salutammo attraverso il finestrino della gavetta tagliato nella porta delle nostre celle. Mirella era stata catturata a Bombiana e dopo aver passato la giornata in un comando brasiliano venne trasportata a Porretta Terme. Passò per varie carceri e per i campi di Terni e di Miramare, riacquistando la libertà nel settembre 1946. Verso il 10 dicembre, fui chiamata in parlatorio dal cap. Fielding, avvocato difensore d'ufficio e indispensabile per imbastire un processo, (nessuno di noi aveva mai chiesto niente). Era un irlandese che “oh! non era fascista!... ma ci capiva perfettamente perché, anche lui, ai suoi tempi, aveva fatto pazzie per la indipendenza del suo Paese”. Al processo, iniziatosi il 13 dicembre 1944 presso la Corte Militare Alleata in Firenze (via Cavour, 57) mi difese con tutte le sue forze. Voleva evitarmi di salire sulla pedana dei testimoni». “Voi vi accusate” -mi rimproverava- “Che bisogno avete di dire che siete fascista?” “Cap. Fielding, i fatti si negano, la Fede non si rinnega”. Tentò di farmi passare per pazza. La risposta del medico fu circostanziata ed eloquente: affermò che “l'imputata, arruolatasi volontaria in un esercito stremato dalle gravi perdite subite e dalla defezione dei più, aveva obbedito ad un altissimo sentimento dell'Onore, sentimento che aveva trovato la sua espressione nella dedizione ad un'idea e nella volontà di lotta contro chi aveva invaso il suo Paese”.
Salii a testimoniare la mia Fede. Il P.M. chiese espressamente “Perché vi siete arruolata? Per denaro o perché eravate fascista?”. Alla mia risposta, il povero cap. Fielding si alzò a mezzo, fece un gesto sconsolato e tornò a sedere.
Avevo contravvenuto al Proclama n. 1 (Parte II -Art. IV- Sez. I) che contemplava la morte con fucilazione al petto. Lo scopo della difesa era non quello di evitare la reclusione (cosa impossibile) bensì di evitare la pena capitale. Fallito il suo tentativo (quello tendente a farmi ricoverare fra gli alienati), a Fielding non rimase che portare a mia difesa gli argomenti dell'accusa. “è leale, è onesta, ha dichiarato senza esitazioni di essere fascista, di non pentirsi affatto delle decisioni prese e di essere pronta a ricominciare da capo”. “Noi concediamo all’imputata la simpatia e se volete, l’ammirazione che ella merita, ma appunto per questo siamo convinti che l’imputata non vorrà mai cooperare con noi e noi abbiamo il dovere di salvaguardare il nostro esercito. Perciò chiedo la pena di morte» tuonava l'accusa. “Ma il mondo ha bisogno di onesti!” replicava la difesa e “l’imputata è fascista, perchè per lei la Causa del Fascismo si è identificata con quella del suo Paese. Ella non ha mai conosciuto un diverso sistema di vita...(ed ora che lo conosco cosa dovrei essere?)”.
Ho l'impressione però che il capitano Fielding sia stato, almeno in Firenze, l'unica eccezione alla regola: è noto il caso di un legale che al suo imputato dichiarò: “Prima di essere il vostro avvocato, io sono un americano”. Il cap. Fielding fu più tardi dispensato dall'ufficio: venne a salutarmi in carcere e mi spiegò, sorridendo un po' mesto, “di averne salvati troppi. Ora non mi sarà più possibile...“ Grazie ugualmente cap. Fielding. Il processo terminò il 10 dicembre: fui condannata a venti anni di reclusione.

RECLUSIONE MILITARE

Il magg. Spingarn attribuì la mite condanna all'appassionata eloquenza della difesa. Mario, processato prima di me, fu invece condannato a morte e fucilato a Fiesole, Cave di Maiano. Le sue ultime ore al carcere delle Murate furono un esempio per i compagni e questi non l'hanno dimenticato; oggi testimoniano del suo comportamento e ne onorano la memoria. Sono di quell'inverno -e specialmente del periodo susseguente al 1° Gennaio 1945 in cui si ebbe da parte alleata un irrigidimento delle condanne- esempi di eroismo: volò di cella in cella, oltrepassando mura e grate, il racconto circa i due Camerati che, chiamati per l'esecuzione della sentenza capitale, si erano presentati violacei per il freddo, ma sorridenti, in canottiera, calzoncini e zoccoli. Agli americani sbigottiti, avevano spiegato, con il tono più naturale di questo mondo, di aver lasciato gli indumenti ai Camerati rimasti in cella, giacché loro di lì a poco non ne avrebbero avuto bisogno. Andarono al muro cantando e caddero gridando: Viva l'Italia! Tanti altri si immolarono e furono sepolti senza un nome e senza una croce. Al mio ritorno a Santa Verdiana capii la segregazione che mi aveva riservato la Corte Militare: niente leggere, niente posta, niente lavorare... “fino a nuovo ordine”.
Rifiutai il ricorso in appello (su domanda da presentarsi entro 30 giorni dalla sentenza) e quindi, dopo tale termine, la condanna passò in giudicato.
Dopo la fine della guerra, il 25 giugno 1945, fui tradotta per l'esecuzione della pena a Perugia con le due Camerate con le quali in Firenze avevo tentato la fuga: una, Daga, studentessa in medicina, caduta prigioniera ed internata in un campo di concentramento, ne era fuggita, raggiungendo nuovamente le linee, quando all'ultimo momento, per la spiata di un contadino, aveva perso per la seconda volta la libertà: tradotta nelle carceri fiorentine, era stata condannata a morte il 16 gennaio 1945 e solo nel marzo le era stata comunicata la commutazione all'ergastolo. L'altra, Eureka, caduta prigioniera nel novembre 1944, era stata condannata a venti anni nel marzo 1945.
Ci fu tolta la segregazione e permesso di comunicare con le famiglie. Più tardi, ci raggiunsero nel Penitenziario di Perugia, provenienti da quello di Urbino, tre bolognesi, processate dal Tribunale Militare Alleato di Riccione e condannate ciascuna a dieci anni (due di loro erano state in un primo tempo condannate a morte). Alba, del cui arresto e della cui condanna avevo avuto notizia nel corso della mia seconda missione, era stata assegnata al Penitenziario di Trani (Bari) con una sentenza di 18 anni.
Sette siamo state le condannate dai Tribunali Alleati in base al Proclama N. 1; un'altra volontaria, proveniente da Milano, fu processata, alla fine della guerra, da un Tribunale Italiano che la condannò a cinque anni, con il condono del 1946; altre furono assolte e internate nei vari campi di concentramento; alcune, non furono mai scoperte.
Nel giugno del 1946, i giornali scrissero che “i militari condannati da Tribunali Alleati (circa trecento tra uomini e donne) non avrebbero usufruito dell’amnistia italiana”. Quando, nel dicembre 1947, le forze alleate lasciarono l'Italia, i nostri casi divennero di competenza delle Autorità Italiane. Queste ci passarono alle carceri giudiziarie e riaprirono i processi, giacché gli Alleati avevano consegnato soltanto gli estratti delle sentenze e non i verbali delle istruttorie da loro condotte. Risultando a nostro carico azioni militari non contemplate dal Codice italiano, nel 1948 fummo liberati.






  





  














     
     

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