Carla Costa
FUGA PER ARRUOLARSI
Mi
iscrissi alle Squadre giovanili Onore e Combattimento (Federazione di
Roma) per il corso di infermiera. Ma non ero ancora soddisfatta: sognavo
di più volevo di più!... la Patria muore... Il mio pensiero dominante
era quello di poter andare al fronte.
Chiedevo a tutti, interrogavo
tutti... e fu proprio in Federazione che sentii parlare di "un
Colonnello che arruolava anche donne"... "E dove sta, questo
Colonnello?". "Non so di preciso, ma mi hanno detto che è in Piazza
Colonna, al Palazzo della Stampa".
Quando mi si disse di passare, il
Colonnello era in piedi vicino alla finestra e mi parve di un'imponenza
statuaria. Mi chiese burbero cosa ero andata a fare ed interruppe il
torrente delle mie parole con una sferzata quasi ironica: "Ma qui si
muore, lo sai? Si sedette dietro la scrivania e disse che il suo era un
Reparto Speciale, che anche le donne erano tenute alla più rigida
disciplina militare e che anche loro affrontavano la bella morte sul
campo e la brutta morte davanti ad un plotone d'esecuzione: giacché ,
per noi la prigionia non è mai un sistema per riportare la buccia a
casa, per noi la prigionia è il principio della fine. Sarai processata,
condannata a morte e fucilata nello spazio di trenta giorni. Ma puoi
essere fiera: sarai fucilata al petto. E' la morte dei soldati".
La
selezione era rigorosa: occorrevano volontari di sicura fede, di volontà
tenace e di un coraggio cosciente del pericolo, perché quei volontari
avrebbero portato la guerra, la loro guerra, nel territorio occupato dal
nemico.
Quello del Colonnello De Santis era infatti un Reparto
Speciale della GNR e dell'Esercito. In RSI, i Reparti Speciali hanno
avuto una particolare importanza e un notevole sviluppo perché, a causa
dell'insufficienza di mezzi -specie per quanto riguarda l'aviazione- si
fece sentire la necessità di sopperire alla penuria di materiale
meccanico con mezzi umani. E mentre il nemico inviava ovunque e senza
tregua i suoi aerei da ricognizione e da bombardamento, l'Esercito
Repubblicano, povero di mezzi e ricco di valore, inviava i suoi
informatori, i suoi guastatori, i suoi sabotatori: Legionari che
volontariamente e coscientemente offrivano sé stessi per una missione
spesso senza ritorno.
Per le missioni da svolgersi lungo la linea del
fuoco e nelle immediate retrovie nemiche, oppure quando si trattava di
un gruppo e non di un solo sabotatore o ricognitore, gli Agenti Speciali
indossavano la regolare divisa.
Per le missioni lontano dal fronte e
nell'interno del territorio invaso vestivano necessariamente in
borghese, ma avevano in tasca un autentico documento di riconoscimento.
Il soldo era di mille lire al mese.
Traversavano le linee in
qualsiasi ora del giorno. Erano decisi a tutto: vivevano in continuo
pericolo di vita: cadendo prigionieri, dichiaravano la loro fede e si
chiudevano poi in un ostinato silenzio; né minacce né lusinghe né
torture hanno potuto strappare loro nomi di altri Volontari.
Processati
e condannati a morte, andavano al supplizio come se andassero verso il
trionfo. Chiedevano di non essere bendati e morivano gridando Viva
l'Italia.
I migliori di noi sono caduti. Noi superstiti abbiamo
sfiorato la morte più volte (quella sul campo e quella al palo). Non ci
siamo mai abbassati a rinnegare alcunché nemmeno davanti ai Tribunali
che, dovevano condannarci. Abbiamo passato anni nelle patrie galere, con
condanne che andavano da 10 anni all'ergastolo. Se non siamo morti e se
siamo già liberi, non dobbiamo ringraziare nessuno, perché nulla
abbiamo chiesto a nessuno. Se domani la Patria ci chiedesse ancora di
buttare la nostra vita allo sbaraglio, perché un invasore strapotente
calpesta il suolo italiano e perché l'Italia non ha mezzi sufficienti
per resistere, agiremmo come abbiamo agito, certi di non mancare alle
leggi della lealtà e dell'onore: non siamo pentiti.
Al Comando
l'atmosfera si faceva sempre più rovente. Tornavano i primi Volontari da
Cassino, da Anzio, da Nettuno. Raccontavano con una semplicità
sconcertante le più straordinarie avventure e le reclute mordevano i
freni. Chiesi al Comandante di arruolarmi definitivamente. Mi rivolse
alcune domande di carattere personale: dovetti dire che ero figlia unica
e che i miei non volevano lasciarmi partire. "Quanti anni hai?".
"Diciassette". "Non posso prendermi la responsabilità di arruolare una
minorenne contro la volontà dei suoi. Ottieni il permesso e poi ne
riparleremo". Fu irremovibile ed io vedevo crollare tutte le mie
speranze. I miei si insospettirono e cominciarono a sorvegliare ogni mio
movimento. Scappai. Era la sera del 2 giugno 1944: il Comandante mi
diede una divisa, ma volle avvertire la mia famiglia. Riuscì ad avere la
comunicazione a notte inoltrata: so che tentò di convincere mia madre,
che dall'altra parte dei filo piangeva: il Comandante promise di
rimandarmi a casa.
La mattina seguente, quando ci fu data la sveglia,
il Colonnello era già chiuso nell'ufficio: distrusse parte dei
documenti e messo il resto in una borsa diede l'ordine dello sgombero.
Ci trasferimmo alla Caserma Ferdinando di Savoia, vicino alla Stazione
Termini.
Era la fine. Passammo la notte dal 3 al 4 fuori Caserma
pronti per la partenza. Roma, nel suo muto spavento sembrava accorgersi
solo allora della guerra. Non una voce, non una luce: per via Nazionale
lo scalpiccìo dei cavalli della colonna che trasportava verso Nord i
feriti. Al mattino del 4, in Caserma e in ordine di marcia. Aerei nemici
gettavano manifestini: "Italiani, sabotate l'esercito fascista in
fuga...... Ma nella nostra ritirata nulla aveva l'aspetto di una fuga."
Giunse
il Comandante: "Dovevamo partire con un camion e tre macchine: ci
stringeremo perché due delle macchine sono introvabili: qualcuno ha
avuto paura. Resti pure". Mandò avanti con Katia e le ragazze la
macchina rimasta. Fece caricare sul camion viveri per alcuni giorni e vi
fece salire gli uomini. Si rivolse a me e mi esortò a tornare in
famiglia, mantenendo così la promessa fatta a mia madre. Diede l'ordine
di partire e salì in cabina accanto all'autista. Fu un attimo: il camion
era già in moto, mi aggrappai alla sponda posteriore e saltai dentro. I
Camerati mi fecero posto e mi misero tra le mani una rivoltella: "Se
noi spariamo, spara anche tu devi premere il grilletto". Il Comandante
non si era accorto di nulla. Percorremmo via Nazionale, passammo per
piazza Venezia ed istintivamente gettammo lo sguardo al balcone.
Voltammo per il Corso e raggiunto Ponte Milvio, prendemmo la Statale n.
3, Flaminia. Roma nel giro di poche ore sarebbe diventata bivacco di
truppe di colore. Raggiungemmo Milano il 9 giugno, stabilendoci
provvisoriamente nella caserma della già 2411 Legione MVSN in via
Vincenzo Monti. Vi fu la cerimonia del giuramento dei nuovi arruolati:
tesi il braccio verso il Tricolore e pronunciai le parole di rito "Nel
nome di Dio e dell'Italia, giuro ... ".
Per accordi tra il Comandante
e il Capo del Reparto tedesco Kora di Viale Monza seguimmo presso tale
Comando il corso d'istruzione su uomini e mezzi militari alleati. Seguii
due turni contemporaneamente, un giorno uno e un giorno l'altro, uno
per l'Esercito e uno per l'aeronautica (non seguii le lezioni per la
Marina) perché ero già stata assegnata ad un settore interno). Il corso
si proponeva di metterci in grado di riconoscere reparti e dispositivo
nemici. L'istruzione verteva dalle notizie più semplici (distinzione di
gradi e di unità) sino a quelle più complesse riguardanti i mezzi più
perfezionati. Terminai il corso verso la fine di luglio.
MISSIONE DI FERRAGOSTO
La
sera del 6 agosto ero di guardia. Arrivò Gianna "Il Comandante mi ha
mandato a sostituirti. Ti vuole in ufficio". "Partirai stanotte -esordì
il Colonnello. Sei destinata ad un settore tenuto dalle truppe tedesche:
andrai a ritirare oggi la parola d'ordine e il fazzoletto che
serviranno a farti riconoscere e che ti daranno diritto al loro aiuto:
ti accompagneranno sino in vista del nemico. Missione di prima linea:
Firenze e dintorni".
"La città resiste ancora ma il nemico è già
penetrato nella zona di qua d'Arno. Hai avuto istruzione e
addestramento: sai cosa devi fare e quali sono i nostri scopi.-gira,
osserva, annota mentalmente truppe, armi, spostamenti nemici. Ti
tratterrai tre giorni e rientrerai. Buona o cattiva che sia la tua
fortuna, comportati bene".
Ritirai la parola d'ordine: Gero 106, una
parola di nessun significato, comune a tutti i Reparti in collegamento
con quel Comando tedesco, seguita da un numero che distingueva gli
Agenti.
Avrei potuto dare la parola d'ordine soltanto ad un
ufficiale: per evitare eventuali equivoci con i soldati mi venne
consegnato un insospettabile fazzoletto bianco con orlo a giorno
contenente un inchiostro simpatico. Scesi verso Firenze accompagnata da
un solo soldato: la macchina non poteva proseguire. Montammo in
motocicletta e, saltando da una buca all'altra, giungemmo a Villa
Palmieri alle porte di Firenze. La maggioranza dei soldati era sistemata
nelle cantine. Un capitano indicò un punto della carta: "Qui c'è un
ponte -mi spiegò- l'estrema punta tenuta ancora dai nostri soldati. Il
nemico tenta una manovra aggirante, ha già occupato Campo di Marte: i
nostri, se non vogliono rimanere accerchiati dovranno presto lasciare la
posizione. E' già tutto minato".
"Vi accompagneremo fino al ponte e
quando avremo chiuso i cancelli alle vostre spalle sarete in territorio
ostile. Davanti a voi si apre un largo viale alberato, Viale Regina
Vittoria, che sbocca in Piazza Cavour. In via Cavour troverete il primo
comando nemico".
Il 14 mi diedero per guida una Camicia Bruna.
Scendemmo verso la città. Le strade erano deserte, le case abbandonate.
Gli scarponi chiodati della mia guida risuonavano sinistramente. Sul
ponte una casa semidiroccata serviva di ricovero ai pochi soldati
rimasti. Il ponte era sbarrato da una doppia cancellata. Fu scambiata la
parola d'ordine. Aperto il primo cancello, venne nuovamente sprangato.
Entrammo in casa: un breve corridoio e una parte di quella che era stata
una cucina. Un sergente mi assicurò che non avrebbero sparato per darmi
il tempo di raggiungere Piazza Cavour. "Voi, comunque, appoggiatevi al
muro". Uscimmo insieme, ci avvicinammo al secondo cancello, mi indicò il
tratto che avrei dovuto seguire al mio ritorno. “Non dimenticatevene,
il ponte è minato". Aprì il cancello, mi diede la mano e... "Buona
fortuna, camerata!". Era ancora buio, e mi misi a correre piegate in
avanti."Raggiunsi senza incidenti la fine del viale: oltre Piazza Cavour
iniziava la zona sotto occupazione. Se avessi potuto raggiungerla,
sarei potuta passare inosservata.
Il cielo si schiariva. Sentivo
venire dal centro i primi ansimi della città. Salii lungo il mio muro,
mi sollevai e portai i piedi al di sopra e da lassù spiccai un salto,
attraversai di corsa la Piazza deserta ed imboccai via Cavour con passo
affrettato ma calmo.
"Correte i fascisti sparano dalle finestre!"
L'insperato aiuto di Camerati che non conoscevo mi aprì la strada verso
il Duomo e mi diede la consolante sensazione di non essere poi tanto
sola in quella città invasa ...
A mezzogiorno gli americani avevano
terminato il ponte militare gettato sui piloni dell'ex-ponte Santa
Trinita. Per i civili niente. Anch'io passai più volte avanti e
indietro, saltando nell'acqua tra le macerie.
Girai tutto il giorno
per Firenze: verso sera ero in Piazza Santa Maria Novella: un partigiano
davanti alla bella Basilica aveva attirato un gruppetto di persone. Mi
avvicinai anch'io: "Li abbiamo ammazzati subito, tutti e dieci... Qui,
vedete?". Ed indicava sul selciato larghe tracce di sangue.
Voltai a
caso in Via degli Orti Oricellari. Al numero 25 una scritta bilingue,
che proibiva l'ingresso ai militari, attirò la mia attenzione. "E' una
casa di suore... fra di loro non desterò sospetti..." e allungai la mano
al campanello. Fui accompagnata dalla Superiora, la quale, ascoltata
cortesemente la mia richiesta chiese allarmata. "Non sarete mica
fascista, vero?". "No, certamente" risposi con sforzo. "Sapete, non per
cattiveria ma di fascisti non ne possiamo assolutamente alloggiare".
La
mattina di Ferragosto ripresi il mio giro: un gruppo di fascisti era
asserragliato in Stazione. Al pomeriggio vi fu l'ordine alleato di
consegna delle armi. A Campo di Marte, il 16, notai grandi rinforzi di
artiglieria. Avevo mentalmente Notato ogni particolare di carattere
bellico secondo le istruzioni ricevute: la missione era ormai al termine
e la sera del 16 verso il tramonto presi la strada che doveva
riportarmi al ponte. Arrivai in piazza Cavour senza che nessuno mi
dicesse nulla. Sulla mia destra, dall'altra parte, si apriva viale
Regina Vittoria, la terra di nessuno. "Ehi voi! dove andate?". Non mi
voltai affatto, scattai come una molla. Mi buttai al centro della strada
ed attaccai la corsa più veloce di tutta la mia vita. Sentii il fischio
acuto di qualcosa che mi raggiunse e mi sorpassò: il gruppo alle mie
spalle aveva aperto il fuoco dando così l'allarme. Gridavano e sparavano
all'impazzata prendendomi di mira, ma nessuno aveva il coraggio di
venirmi a fermare nel mezzo della strada. La mitragliatrice sul ponte,
anche se silenziosa, appoggiava ugualmente il mio ritorno.
Divoravo
la strada inseguita da quel rabbioso tiro a segno, regolando la corsa
sul ritmo di quella musica forsennata. Mi mancava poco ormai... ancora
due traverse, ancora una... I tedeschi si erano affacciati all'unica
finestra che dava sul viale per seguire la scena... li distinguevo già
bene... Giunsi con il fiato grosso alla fine del viale, attraversai
senza rallentare lo spazio davanti al cancello chiuso, mi arrampicai
come una scimmia sulle sbarre dello stesso, puntai le braccia, saltai
dall'altra parte.
Ricordai l'ultima raccomandazione del sergente ("il
ponte è minato"). Tenni la sinistra, rasentando poi verso destra il
muro della casa, girai l'angolo e piombai come un bolide in mezzo ai
soldati che mi aspettavano. Ero salva!
Mi accompagnarono a Villa
Palmieri e di là verso Milano, ospite dei Tedeschi presso Bologna,
attendevo la macchina del mio comando, ero in giardino a godermi il
fresco, quando vennero a chiamarmi: avrei rivisto il Colonnello e i
Camerati: finalmente!
PROCESSO A FIRENZE
Divenni la
“Signorina Non So”. Il magg. Spingarn ordinò il digiuno: “sino a quando
non avrete parlato”. All'ora di pranzo, apparecchiarono il tavolino
davanti a me per una delle due ausiliarie americane che dormivano a
turno nella mia stanza. Questa, non appena seppe la verità, arrossì
violentemente, buttò indietro la sedia uscendo quasi di corsa. Mi
spiegarono che la signorina non conosceva gli ordini e che comunque “non
si prestava al gioco”. Fu il magg. Spingarn in persona che, per
stuzzicare maggiormente il mio appetito, divorò sotto i miei occhi un
fumante piatto di spaghetti...
Dopo l'ordine del digiuno arrivò
quello della veglia: dovevo rimanere seduta senza appoggiarmi al
tavolino, senza dormire: dovevo “meditare e convertirmi, dovevo
parlare”.
La sera del 27 ottobre (era già molto tardi) entrò nella
stanza il maggiore Spingarn: “Credete in Dio?” “Sì”. Il maggiore trovò
da obiettare qualcosa (mi aveva già detto di essere ebreo, in ossequio
non so se alla verità o se ad un particolare sistema di
pseudo-minaccia). “Desiderate un confessore particolare?” “No, per me è
lo stesso”. Bene, vi manderemo il parroco di Tavarnelle. Domattina alle 6
vi fucileremo. Così festeggerete degnamente il 23' anno dell'Era
Fascista». Risposi: “Onoratissima”. Il parroco non venne mai. La mattina
dopo arrivò invece il maggiore con il seguito, ostentando per
l'occasione una magnifica grinta scura. Credevo fosse giunta l'ora.
Spingarn annunciò: “Per ordine del Comandante Supremo non vi dovremo
fucilare finché non avrete parlato... Diteci i nomi dei vostri complici
... parlate... la guerra è perduta per voi ... perché continuare a
combattere?... noi sappiamo tutto; noi siamo i padroni del vostro
Paese... Il Fascismo è morto... perché sacrificarvi inutilmente? ...”
Non avevo niente da dire e quindi rimasi in silenzio domandandomi perché
mai mi guardassero tutti a quel modo senza giungere alla conclusione.
Finalmente Spingarn chiese: “Non dite almeno qualcosa del fatto che vi
lasciamo ancora un po' di vita?” Ah! ora avevo capito! aspettavano forse
i miei commossi ringraziamenti. Inscenarono poi una commedia per
comunicarmi che a . . Il 9 novembre dalle Carceri di Santa Verdiana in
Firenze fui tradotta alle Mantellate di Roma. Gli ordini furono
severissimi: segregazione assoluta e pane ed acqua sino a nuovo ordine.
Saltavano
così il vitto passato dagli alleati ai loro prigionieri in Roma, il
supplemento carcerario per i minorenni e l'unica minestra regolamentare
delle ore 12. ...E gli interrogatori continuavano. Il 25 fui nuovamente
trasferita a Firenze: ogni traduzione mi costò sempre un digiuno di
30-36 ore.
Il ritmo degli interrogatori si andava ormai allentando. A
fine novembre avvenne l'ultimo, prima del processo: fu l'interrogatorio
più scabroso. Fu il finale estremo di tutta la lunga serie: un
confronto. Questa volta l'americano non fece la topica degli
avvertimenti (fu un caso o fu il frutto delle lezioni passate?) ma
preparò la scena con accortezza. Entrando nel parlatorio di Santa
Verdiana ebbi davanti a me una Camerata e l'ufficiale avversario. Sentii
qualcosa stringermi lo stomaco: davanti a me era Mirella, l'impaziente
minorenne che avevo conosciuto negli ultimi giorni della mia permanenza a
Milano e che con tanto entusiasmo si era preparata alla lotta... Ci
scambiammo un rapido sguardo superficiale.. Mirella non batté ciglio ed
io sedetti rispondendo tranquillamente al saluto del maggiore, che non
mi aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Alla sua
esplicita domanda ci osservammo finalmente con l'attenzione di chi cerca
tratti noti in un volto sconosciuto... il risultato dell'esame fu
nullo: negai di conoscerla e Mirella fece altrettanto nei miei riguardi.
Il maggiore strabiliò: in base ai dati in loro possesso dovevamo
conoscerci per forza. L'americano, non ci credette. Sbraitò a vuoto per
un pezzo: finalmente mi congedò. “Gli italiani hanno la pessima
abitudine di dire bugie!!”. Così si chiuse la mia istruttoria. Posso
dire di essere stata ben fortunata, come sempre: oggi, quando incontro
il Camerata che mi mostra le cicatrici delle bruciature e delle percosse
ricevute, mi vergogno di essermela cavata così liscia.
Alcuni giorni
dopo, Mirella ed io ci salutammo attraverso il finestrino della gavetta
tagliato nella porta delle nostre celle. Mirella era stata catturata a
Bombiana e dopo aver passato la giornata in un comando brasiliano venne
trasportata a Porretta Terme. Passò per varie carceri e per i campi di
Terni e di Miramare, riacquistando la libertà nel settembre 1946. Verso
il 10 dicembre, fui chiamata in parlatorio dal cap. Fielding, avvocato
difensore d'ufficio e indispensabile per imbastire un processo, (nessuno
di noi aveva mai chiesto niente). Era un irlandese che “oh! non era
fascista!... ma ci capiva perfettamente perché, anche lui, ai suoi
tempi, aveva fatto pazzie per la indipendenza del suo Paese”. Al
processo, iniziatosi il 13 dicembre 1944 presso la Corte Militare
Alleata in Firenze (via Cavour, 57) mi difese con tutte le sue forze.
Voleva evitarmi di salire sulla pedana dei testimoni». “Voi vi accusate”
-mi rimproverava- “Che bisogno avete di dire che siete fascista?” “Cap.
Fielding, i fatti si negano, la Fede non si rinnega”. Tentò di farmi
passare per pazza. La risposta del medico fu circostanziata ed
eloquente: affermò che “l'imputata, arruolatasi volontaria in un
esercito stremato dalle gravi perdite subite e dalla defezione dei più,
aveva obbedito ad un altissimo sentimento dell'Onore, sentimento che
aveva trovato la sua espressione nella dedizione ad un'idea e nella
volontà di lotta contro chi aveva invaso il suo Paese”.
Salii a
testimoniare la mia Fede. Il P.M. chiese espressamente “Perché vi siete
arruolata? Per denaro o perché eravate fascista?”. Alla mia risposta, il
povero cap. Fielding si alzò a mezzo, fece un gesto sconsolato e tornò a
sedere.
Avevo contravvenuto al Proclama n. 1 (Parte II -Art. IV-
Sez. I) che contemplava la morte con fucilazione al petto. Lo scopo
della difesa era non quello di evitare la reclusione (cosa impossibile)
bensì di evitare la pena capitale. Fallito il suo tentativo (quello
tendente a farmi ricoverare fra gli alienati), a Fielding non rimase che
portare a mia difesa gli argomenti dell'accusa. “è leale, è onesta, ha
dichiarato senza esitazioni di essere fascista, di non pentirsi affatto
delle decisioni prese e di essere pronta a ricominciare da capo”. “Noi
concediamo all’imputata la simpatia e se volete, l’ammirazione che ella
merita, ma appunto per questo siamo convinti che l’imputata non vorrà
mai cooperare con noi e noi abbiamo il dovere di salvaguardare il nostro
esercito. Perciò chiedo la pena di morte» tuonava l'accusa. “Ma il
mondo ha bisogno di onesti!” replicava la difesa e “l’imputata è
fascista, perchè per lei la Causa del Fascismo si è identificata con
quella del suo Paese. Ella non ha mai conosciuto un diverso sistema di
vita...(ed ora che lo conosco cosa dovrei essere?)”.
Ho l'impressione
però che il capitano Fielding sia stato, almeno in Firenze, l'unica
eccezione alla regola: è noto il caso di un legale che al suo imputato
dichiarò: “Prima di essere il vostro avvocato, io sono un americano”. Il
cap. Fielding fu più tardi dispensato dall'ufficio: venne a salutarmi
in carcere e mi spiegò, sorridendo un po' mesto, “di averne salvati
troppi. Ora non mi sarà più possibile...“ Grazie ugualmente cap.
Fielding. Il processo terminò il 10 dicembre: fui condannata a venti
anni di reclusione.
RECLUSIONE MILITARE
Il magg. Spingarn
attribuì la mite condanna all'appassionata eloquenza della difesa.
Mario, processato prima di me, fu invece condannato a morte e fucilato a
Fiesole, Cave di Maiano. Le sue ultime ore al carcere delle Murate
furono un esempio per i compagni e questi non l'hanno dimenticato; oggi
testimoniano del suo comportamento e ne onorano la memoria. Sono di
quell'inverno -e specialmente del periodo susseguente al 1° Gennaio 1945
in cui si ebbe da parte alleata un irrigidimento delle condanne- esempi
di eroismo: volò di cella in cella, oltrepassando mura e grate, il
racconto circa i due Camerati che, chiamati per l'esecuzione della
sentenza capitale, si erano presentati violacei per il freddo, ma
sorridenti, in canottiera, calzoncini e zoccoli. Agli americani
sbigottiti, avevano spiegato, con il tono più naturale di questo mondo,
di aver lasciato gli indumenti ai Camerati rimasti in cella, giacché
loro di lì a poco non ne avrebbero avuto bisogno. Andarono al muro
cantando e caddero gridando: Viva l'Italia! Tanti altri si immolarono e
furono sepolti senza un nome e senza una croce. Al mio ritorno a Santa
Verdiana capii la segregazione che mi aveva riservato la Corte Militare:
niente leggere, niente posta, niente lavorare... “fino a nuovo ordine”.
Rifiutai
il ricorso in appello (su domanda da presentarsi entro 30 giorni dalla
sentenza) e quindi, dopo tale termine, la condanna passò in giudicato.
Dopo
la fine della guerra, il 25 giugno 1945, fui tradotta per l'esecuzione
della pena a Perugia con le due Camerate con le quali in Firenze avevo
tentato la fuga: una, Daga, studentessa in medicina, caduta prigioniera
ed internata in un campo di concentramento, ne era fuggita, raggiungendo
nuovamente le linee, quando all'ultimo momento, per la spiata di un
contadino, aveva perso per la seconda volta la libertà: tradotta nelle
carceri fiorentine, era stata condannata a morte il 16 gennaio 1945 e
solo nel marzo le era stata comunicata la commutazione all'ergastolo.
L'altra, Eureka, caduta prigioniera nel novembre 1944, era stata
condannata a venti anni nel marzo 1945.
Ci fu tolta la segregazione e
permesso di comunicare con le famiglie. Più tardi, ci raggiunsero nel
Penitenziario di Perugia, provenienti da quello di Urbino, tre
bolognesi, processate dal Tribunale Militare Alleato di Riccione e
condannate ciascuna a dieci anni (due di loro erano state in un primo
tempo condannate a morte). Alba, del cui arresto e della cui condanna
avevo avuto notizia nel corso della mia seconda missione, era stata
assegnata al Penitenziario di Trani (Bari) con una sentenza di 18 anni.
Sette
siamo state le condannate dai Tribunali Alleati in base al Proclama N.
1; un'altra volontaria, proveniente da Milano, fu processata, alla fine
della guerra, da un Tribunale Italiano che la condannò a cinque anni,
con il condono del 1946; altre furono assolte e internate nei vari campi
di concentramento; alcune, non furono mai scoperte.
Nel giugno del
1946, i giornali scrissero che “i militari condannati da Tribunali
Alleati (circa trecento tra uomini e donne) non avrebbero usufruito
dell’amnistia italiana”. Quando, nel dicembre 1947, le forze alleate
lasciarono l'Italia, i nostri casi divennero di competenza delle
Autorità Italiane. Queste ci passarono alle carceri giudiziarie e
riaprirono i processi, giacché gli Alleati avevano consegnato soltanto
gli estratti delle sentenze e non i verbali delle istruttorie da loro
condotte. Risultando a nostro carico azioni militari non contemplate dal
Codice italiano, nel 1948 fummo liberati.
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