Se esistessero ancora dubbi sulla
criminale politica maoista in Cina, in un contesto intriso di comunismo
obbligatorio che si respirava a tutti i livelli della società, sarebbe
sufficiente per fugarli, leggere “Cigni selvatici”, il libro di Jung Chang scritto con il supporto di John Halliday.
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L’autrice narra il percorso di
vita che ha accompagnato l’esistenza della nonna materna, della mamma, e
di lei stessa, in un intreccio di esperienze condizionate dalle
imposizioni dei regimi che nel frattempo imperversavano.
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Cigni selvatici è stato scritto solo nel 1991 nonostante il fatto che Jung Chang sognasse di scrivere anche molto tempo prima.
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l fatto è che all’epoca in cui l’autrice viveva in Cina era impossibile scrivere libri e testi destinati alla pubblicazione.
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Mao infatti, nel biennio 1966-67 aveva promosso la cosiddetta “Rivoluzione culturale”.
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Per soddisfare le prerogative di
questa nuova “invenzione” maoista, che si estese e si radicò poi in Cina
per un decennio, furono dati alle fiamme quasi tutti i libri esistenti
trovati nelle abitazioni private, e fu proibito di scrivere per se
stessi.
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Il divieto comprendeva perfino la
stesura di semplici poesie, ritenute espressione di appartenenza alla
borghesia, e identificava chi commetteva questo grave reato come seguace
del capitalismo.
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Il racconto dell’autrice inizia
con la collocazione storica datata al 1924, anno in cui la nonna,
Yu-Fang, all’età di 15 anni, divenne concubina di un potente “Signore della guerra”, in terra di Manciuria, una delle innumerevoli regioni cinesi.
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L’unione fu combinata secondo le
usanze dell’epoca, e cioè tramite un accordo tra la famiglia e il futuro
“sposo”, senza tenere conto dei desideri della donna, che a quel tempo
non aveva alcuna voce in capitolo.
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La
cosa che più importava alle due parti erano da un lato, il progetto di
maritare la figlia mediante un matrimonio il più conveniente possibile,
oppure di darla come concubina ad un qualche personaggio potente e
ricco, e dall’altra di ottenere una moglie o una concubina che
rispondesse il più possibile ai canoni di bellezza e di tradizione
corrispondenti a quelli in voga al momento.
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Tra l’altro i parametri su cui si
basavano la scelta dell’uomo e l’approvazione della sua famiglia di
appartenenza, richiedevano per la futura sposa che lei avesse fatto
ricorso alla “fasciatura dei piedi”.
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Tale pratica era applicata fin dalla più giovane età per contenere le dimensioni dei piedi entro il limite di 8 o 10 cm. di lunghezza.
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Per conseguire questo risultato, era necessario che i piedi della donna venissero fasciati fin dall’età di due anni.
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La pratica consisteva
nell’avvolgere attorno ai piedi una pezza di stoffa lunga alcuni metri,
piegando tutte le dita verso il basso (fuorché l’alluce) e al di sotto
della pianta del piede.
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Poi occorreva frantumare l’arco del piede mediante una grossa pietra.
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Le malcapitate donne solitamente
svenivano e urlavano per il dolore lancinante che provavano durante
questo trattamento disumano, che si protraeva per parecchi anni, anche
dopo che le ossa erano state spezzate.
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I piedi dovevano inoltre restare fasciati giorno e notte per evitare che, liberati, potessero iniziare il naturale processo di guarigione.
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Inoltre i piedi erano ricoperti di pelle putrescente e mandavano cattivi odori se venivano tolte le bende.
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Il dolore era incessante,le unghie crescendo si conficcavano nell’avampiede, e tormentavano la donna continuamente.
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Per questi motivi i piedi erano sempre nascosti da scarpette di seta ricamate.
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A quei tempi, quando una donna si sposava, la prima cosa che la famiglia dello sposo faceva, era esaminarle i piedi.
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Si riteneva che i piedi grandi, cioè normali, fossero da disprezzare e disapprovare, e che portassero disonore.
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Questa barbara usanza era in uso
da un migliaio di anni, e andò piano piano scomparendo, iniziando il suo
declino proprio negli anni in cui la nonna dell’autrice, fu sottoposta
invece al supplizio.
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Sono gli anni del rovesciamento
dell’Impero, in cui i signori della guerra rappresentavano un reale
potere, basato sulla forza dei loro eserciti, e che governavano regioni
intere del vasto territorio cinese.
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La famiglia della nonna vede quindi di buon grado la richiesta del potente Xue Zhi-heng, che diverrà infatti capo della polizia nel governo dei signori della guerra a Pechino.
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Il ruolo di concubina della nonna
prosegue, anche dopo che viene lasciata sola dal suo signore e padrone,
impegnato altrove nelle sue vicende politiche e militari.
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La sua vita, nel contesto sociale
da cui è isolata, in una sorta di prigione dorata, si snoda in
solitudine, ma a disposizione di colui che poi, dopo sei lunghi anni
torna da lei.
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Il nuovo incontro tra i due, dopo
tanto tempo, è il preludio alla nascita di una bambina, chiamata Bao
Qin, la madre dell’autrice.
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Nel frattempo la società cinese assiste alla unificazione di gran parte del territorio sotto Chiang Kai-Shek, grazie alla struttura politica del kuomintang, e alla contemporanea invasione giapponese della Cina, a partire dalla Manciuria.
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Alla morte del generale Xue, la nonna si trasferisce con la figlia e conosce un medico, il Dr. Xia, con il quale poi si sposa.
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La sua nuova vita inizia a Jinzhou, dove la coppia decide di stabilirsi.
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In Manciuria si supponeva di
vivere in uno stato indipendente, nonostante l’occupazione giapponese,
la quale tramite le istituzioni scolastiche, tra l’altro, diffondeva
l’idea che il Paese (il Manchukuo) confinasse con due repubbliche
cinesi, una ostile, guidata da Chiang Kai-shek, e l’altra amica,
capeggiata da Wang Jing-wei (un burattino dei giapponesi che governava
parte della Cina ).
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Nessuno inculcava ai giovani il concetto di una “Cina” di cui facesse parte la Manciuria.
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Gli insegnanti dicevano che il
Manchukuo era un paradiso in terra, ma questo era vero solo per i
bambini giapponesi, che potevano disporre di scuole riservate a loro,
con materiale didattico a disposizione, ben riscaldate, con pavimenti
lucidi e finestre pulite, mentre per i bambini cinesi erano previsti
come scuole solamente vecchi templi abbandonati, o case diroccate dono
di privati, quasi mai riscaldate.
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Le punizioni corporali facevano
parte della tradizione nipponica e i bambini erano quindi percossi con
bastoni, anche sulla testa.
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Quando i bambini cinesi (e spesso
anche gli adulti) incontravano per la strada un giapponese, dovevano
inchinarsi e cedere il passo, e non di rado i bambini giapponesi
fermavano quelli cinesi per schiaffeggiarli senza altro motivo che
quello di affermare la loro superiorità.
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Nelle vaste distese della Manciuria settentrionale i villaggi cinesi venivano bruciati e i sopravvissuti radunati in “agglomerati rurali strategici”.
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Oltre cinque milioni di persone ( un sesto della popolazione) persero la casa, e i morti furono decine di migliaia.
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L’imperatore cinese, Pu Yi
inizialmente prigioniero virtuale dei giapponesi, si esprimeva
riferendosi a loro come ”nazione confinante amica”, poi come “nazione
sorella” e infine come “madrepatria”.
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Negli anni ’40 l’esercito
giapponese era impegnato su più fronti, tra la Cina, l’Asia sud
orientale e l’Oceano Pacifico, per cui iniziò a reclutare come mano
d’opera anche le donne cinesi, naturalmente obbligandole con vessazioni a
piegarsi ai loro interessi.
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La mamma dell’autrice visse in
prima persona queste vicissitudini e fu testimone di come i giapponesi
cercarono di sradicare le tradizioni locali per sostituirle con quelle
più vicine alle terre del “Sol levante”.
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Le notizie erano censurate e la
radio trasmetteva solamente propaganda ma nonostante ciò iniziarono a
trapelare alcune notizie sulle difficoltà in cui versava il Giappone,
specie dopo la resa di uno dei suoi alleati, l’Italia, nel 1943.
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La situazione trascese, e gli
episodi di intolleranza da parte dei giapponesi sfociarono in episodi
quotidiani di torture e uccisioni di cinesi, individuati come bersagli
della loro furia di onnipotenza.
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Nel 1945 si sparse a Jinzhou la notizia che la Germania si era arresa e che la guerra in Europa era finita.
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I bombardieri americani B-29
bombardavano le città della Manciuria e si diffuse la sensazione che
presto il Giappone sarebbe stato sconfitto.
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Il 9 agosto le truppe sovietiche e mongole entrarono nel Manchukuo.
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Nei giorni seguenti si iniziarono a
trovare cadaveri di giapponesi linciati dalla folla, troppo a lungo
oppressa, e molti di loro si suicidarono.
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L’Armata rossa dilagava a macchia d’olio, moltiplicando le guarnigioni e liberando ogni zona dai giapponesi.
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I Russi però portarono anche nuovi problemi.
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Infatti era loro abitudine
smantellare anche interi stabilimenti, per spedirne i materiali in
Unione Sovietica, oppure entrare nelle case e impadronirsi di qualsiasi
cosa potesse essere di loro interesse.
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Si moltiplicarono gli stupri e le violenze nei confronti delle donne, e le zone “liberate” iniziarono a ribollire di rabbia.
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Iniziarono le reazioni, sia dei comunisti che del kuomintang, che con le loro manovre ripresero a tentare di prevaricarsi reciprocamente, allo scopo di conquistare il potere.
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Il kuomintang, guidato da Chiang Kai-shek, godeva dell’appoggio degli americani che garantirono loro l’appoggio aereo.
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Nella Cina settentrionale sbarcarono più di cinquantamila marines americani, che occuparono Pechino e Tianjin.
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I Russi riconobbero ufficialmente il kuomintang come governo della Cina.
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L’armata rossa si ritirò dalla Manciuria, lasciando ai soli comunisti cinesi, guidati da Mao Zedong, il controllo delle città.
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La politica di Mao prevedeva di
abbandonare le città, impadronendosi delle campagne, per rendere
possibile poi circondarle e impadronirsi di loro.
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A
Jinzhou, la città in cui viveva mia madre, i comunisti lasciarono
quindi il territorio, ritirandosi, e permettendo così ad un nuovo
esercito di insediarsi al suo interno.
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Il kuomintang entrò trionfalmente,
e i suoi soldati si presentarono vestiti come un vero esercito, con
divise pulite e con scintillanti armi americane nuove di zecca.
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L’autrice racconta che la nonna pensò che finalmente il Kuomintang avrebbe ristabilito la legge e l’ordine, assicurando la pace.
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La disillusione però fece presto
capolino tra gli abitanti, non appena gli ufficiali del kuomintang
iniziarono a rivolgersi loro come a “schiavi che non avete una terra
vostra”, oppure come a “schiavi del Giappone”.
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Inoltre la corruzione divenne tanto diffusa che Chiang Kai-shek dovette costituire un organismo speciale per combatterla.I
taglieggiamenti erano all’ordine del giorno e a chi si opponeva veniva
contestato di essere comunista, accusa per la quale erano previsti
l’arresto e la tortura.
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La realtà che si percepiva era
quella che fosse necessario un nuovo cambiamento, più radicale, per
eliminare tutte queste ingiustizie, compresa l’impotenza delle donne, e
le barbarie di certe tradizioni come, per esempio, il concubinaggio, e
si affacciava per questo nelle coscienze cinesi l’idea che una sola
forza politica potesse far avverare un radicale e sostanziale mutamento,
quella comunista.
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Le angherie del kuomintang
assunsero proporzioni che si avvicinavano ad un furore parossistico, e i
nuovi detentori del potere iniziarono una “caccia alle streghe” che
faceva largo uso di tortura e di violenza fisica.
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Iniziò un periodo di energici giri
di vite, alla ricerca di oppositori, di comunisti, di ex simpatizzanti
dei giapponesi, e le accuse formulate sfociavano spesso in esecuzioni
sommarie.
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Le posizioni terroristiche del
kuomintang favorirono la rinascita di simpatie verso l’opposizione
comunista che, clandestinamente, raccoglieva proseliti e consensi.
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La situazione progressivamente
portò ad attacchi militari dei comunisti verso le città, che dopo un
periodo di assedio più o meno lungo, iniziarono a capitolare.
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I bombardamenti crearono dei varchi, attraverso cui le truppe comuniste fluirono nelle città, conquistandole.
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A Jinzhou l’assedio durò 31 ore, e
l’estenuante battaglia provocò ventimila vittime tra i soldati del
kuomintang, e altri ottantamila furono catturati.
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In questo contesto la madre
dell’autrice conobbe quello che sarebbe poi diventato suo sposo, e
avrebbe generato, appunto, Jung Chang, e i suoi fratelli.
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Gli
inizi dei nuovi conquistatori furono improntati a procacciarsi la
benevolenza della popolazione, e il favore di quanti potessero divenire
alleati per controbattere eventuali rappresaglie o ritorsioni del
kuomintang, così come possibili tentativi di riprendersi il potere.
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Non vi furono saccheggi o stupri, e
furono riaperte scuole e uffici, nonostante le strade fossero ancora
disseminate di cadaveri.
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Riaprirono le banche e le forniture di energia elettrica e di acqua potabile, e ripresero a funzionare le ferrovie.
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La madre dell’autrice provò subito
il desiderio di dedicarsi completamente alla rivoluzione e alla causa
comunista, impaziente di esserne compartecipe.
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Prese così appuntamento per
conoscere il responsabile dell’organizzazione del movimento giovanile,
un certo compagno Wang Yu, che sarebbe diventato il padre di Jung.
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La loro storia di amore nacque,
crebbe, e si sviluppò sempre in un contesto che vedeva come interprete
principale l’ideologia del partito e le sue prerogative, lasciando
all’amore dei due un ruolo che diveniva marginale rispetto a quello
prioritario della rivoluzione.
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Le emozioni, gli slanci affettivi,
la convivenza, gli aiuti reciproci, erano interpretati, soprattutto da
lui, integerrimo idealista, come sintomo di una decadenza borghese da
combattere.
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La convivenza non era possibile
così come noi la intendiamo, continua nel tempo, vissuta
quotidianamente, in quanto era considerata espressione di decadenza
borghese, in quanto ogni aspetto personale della vita doveva essere
considerato politico.
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Per questo motivo i funzionari
statali, come lei, dovevano dormire in ufficio, salvo il sabato sera,
come segno di una riorganizzazione radicale non solo delle istituzioni
ma anche della società.
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Era quindi un passo necessario per
raggiungere gli obiettivi della rivoluzione, e comunque molti dei
valori tradizionali precedenti erano ormai osteggiati e puniti, durante
le assemblee di autocritica verbale che quotidianamente si tenevano
dappertutto.
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Bastava dimostrarsi appena
affettuosi con il consorte, per essere accusati di aver messo l’amore al
primo posto anziché la rivoluzione.
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La madre dell’autrice, nonostante la giovane età (diciotto anni) e il matrimonio, si sentiva infelice, confusa e isolata.
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Il marito era l’impersonificazione del partito e non prendeva
mai posizione per schierarsi con lei su qualsiasi aspetto della vita
quotidiana, ma addiceva sempre pretestuose argomentazioni che
riconducevano alle direttive di una rivoluzione traboccante di
suggerimenti.
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Una piccola gentilezza, così come l’indossare un vestitino
dissimile dalla solita uniforme grigia da rivoluzionaria, oppure la
richiesta di un aiuto in condizioni magari di stanchezza, o il pianto,
erano considerati come oggetto di critica.
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Nonostante le privazioni, la spersonalizzazione delle coscienze e
degli individui, quando Mao annunciò la fondazione della Repubblica
Popolare Cinese, lei si mise a piangere come una bambina : finalmente,
dopo il dominio Giapponesi, dopo la tirannia del kuomintang, era nata la
Cina che aveva sempre sognato, e a cui avrebbe potuto consacrare il suo
cuore e la sua anima.
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La
guerra civile in Cina tra comunisti e kuomintang era ben lungi però
dall’essere terminata e Wang Yu, seguendo le direttive del Partito,
doveva occuparsi del comando della guerriglia nei territori in cui la
situazione era incerta e difficile.
.Fu così che si
trasferirono spesso finendo per attraversare mezza Cina, e finalmente
trovarono un periodo di stabilità nella vecchia città natale di lui,
Ybin.
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Lei nel frattempo, dopo un aborto, era in stato interessante, ma
questo non fu sufficiente per organizzarsi in alcuni dettagli che le
avrebbero semplificato la vita.
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Chiamò a sé sua madre, mia nonna, ma fu criticata violentemente
per il suo atteggiamento borghese, fino a che mio padre non le chiese di
rimandarla indietro.
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La rivoluzione proibiva di cucinare in casa, poiché tutti dovevano mangiare alla mensa pubblica, e la regola valeva per tutti.
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Mia nonna aveva confezionato dei vestitini nuovi per il
nascituro, ma fu ancora più duramente criticata per le sue abitudini
borghesi.
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La stessa pratica di lavarsi tutti i giorni era osteggiata, poiché la pulizia era considerata anti proletaria.
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Durante i periodi di guerriglia, si faceva a gara a chi avesse più insetti-rivoluzionari, i pidocchi.
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Tutte le intrusioni, e le sue molteplici sfaccettature, della
vita privata delle persone facevano parte di un progetto noto come “riforma del pensiero” .
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L’ideatore, Mao, tendeva con il conseguimento di questo obiettivo all’assoggettamento totale di tutti i pensieri.
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Ogni settimana si tenevano riunioni dedicate all’esame del
pensiero, in cui ognuno doveva criticare se stesso per i propri pensieri
scorretti e sottomettersi alle critiche degli altri.
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Le riunioni tendevano a
essere dominate da persone meschine e supponenti convinte di essere nel
giusto, che se ne approfittavano per dare sfogo alla propria invidia e
frustrazione ; in particolare, le persone di origine contadina le
sfruttavano per attaccare quelli che avevano origini “borghesi”.
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Il libro prosegue, narrando le mille contraddizioni insite nel
programma maoista di rivoluzione della società, passando per la riforma
agraria che causò 30 milioni di morti,
e proseguendo per la rivoluzione culturale, che azzerò ogni forma di
cultura in Cina per una decina di anni e riportò il paese indietro di 50
anni.
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La madre prima, e l’autrice successivamente erano parte di un
disegno che dovevano loro malgrado interpretare, ma che a lungo,
intimamente, sostennero con fervore, in nome di un ideale in cui
credevano e di un leader a cui facevano riferimento, come milioni di
altri cinesi come loro.
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Il “Grande Timoniere” come soleva essere chiamato Mao, commise
consapevolmente una serie di nefandezze, compresa quella che instaurò un
clima di terrore sociale, mediante l’istituzione delle Guardie rosse e
l’invito loro rivolto a “distruggere i quattro vecchi” : le vecchie
idee, la vecchia cultura, le vecchie tradizioni, e le vecchie abitudini.
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La moglie di Mao, interpretò un ruolo parimenti feroce, durante la “Rivoluzione culturale”
in cui affermava che bisognava saccheggiare le case, distruggere i
tesori delle collezioni private, dipinti e saggi, e soprattutto bruciare
tutti i libri esistenti.
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I musei vennero così saccheggiati, le tombe devastate, le pagode
e i templi presi d’assalto, con il beneplacito di Mao, che sosteneva
l’operato delle guardie rosse ostentatamente.
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Composte per lo più da giovanissimi, le Guardie rosse erano per
Mao il fertile terreno su cui seminare uno strumento ideale di tirannia,
coltivandolo con l’incitamento alla violenza e il fanatismo ideologico.
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Le bande infervorate di giovani comunisti misero a ferro e fuoco
le scuole e le università, prendendo in ostaggio i professori, rei di
incarnare l’essenza di un potere odioso, da distruggere, e li
picchiarono selvaggiamente, li torturarono e li umiliarono, in tutta la
Cina.
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Nessuno volle più interpretare il ruolo dell’insegnamento per
oltre dieci anni, per cui, insieme agli immensi falò di libri e di
volumi di ogni tipo, si persero le radici millenarie della cultura e
della tradizione cinese.
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Distruggere per essere poi l’unico riferimento : un po’ come hanno fatto i talebani con le statue del Buddha in Medio oriente.
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L’ennesima caccia alle streghe dilagò ovunque e cambiò per
sempre la storia cinese, complice Mao, sua moglie, Jiang Qing, e Lin
Biao, unitamente a tutta una schiera di feroci e spietati personaggi che
tronfi di potere scaricavano, spesso per vendetta o per speculazione,
le loro frustrazioni su chi, ai loro occhi, avrebbe potuto insidiare la
loro posizione.
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Una moltitudine di persone si fece largo nella scalata al
potere, o anche solo per ottenere il consolidamento di una comoda
posizione, prendendo di mira coloro che magari consideravano come
ostacoli.
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La società cinese, i comunisti che avevano iniziato la
Rivoluzione, combattendo contro i giapponesi e il kuomintang, oppure gli
intellettuali, o semplicemente coloro che avevano ancora un residuo di
capacità di sintesi intellettiva, iniziarono a nutrire qualche dubbio
sulla figura di Mao, e di come il comunismo aveva trasformato le loro
famiglie, e la società stessa.
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La cieca e irresponsabile, per non dire criminale, politica
maoista dopo aver svelato il suo volto in decenni di catastrofi
umanitarie, finalmente trova riscontro solo in affermazioni di autentica
criticità e di biasimo universale.
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I cinesi stessi, che per generazioni hanno guardato a lui come
un faro che illumina il percorso da seguire, hanno finalmente capito che
Mao e sua moglie sono stati due pazzi criminali, malati di mente, avidi
di un potere corrotto da un'ambizione smisurata, e simili, nella
sostanza ad Hitler ed a Stalin.
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L'odio di questa malvagia coppia
verso qualsiasi forma di intelligenza e di cultura, ha fatto sprofondare
la Cina in un precipizio di terrore e di ignoranza abissali, tagliando i
ponti con ogni pur minima considerazione verso la cultura stessa, in
tutte le sue manifestazioni, facendo regredire il Paese agli oscuri
periodi medioevali.
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La morte di Mao, ha colto tutti i
cinesi in un momento in cui la società stava inconsciamente riesaminando
lo stato delle cose, davanti ad una evidenza palese di sfacelo sociale,
ponendo il dittatore non più su un piedistallo dorato come in un
passato recente in cui era identificato quasi come una divinità, ma
collocandolo a livello di critica esistenziale, eviscerando le
incontestabili nefandezze a cui li aveva sottoposti.
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Ma l'autrice ha veramente potuto
assaporare la libertà vera solamente quando ha potuto recarsi, grazie ad
una borsa di studio, in Gran Bretagna, paese che diverrà poi la sua
nuova patria.
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Viene istintivo domandarsi : di
tutti quei fanatici comunisti che negli anni 60 riempivano le piazze
italiane, sventolando il libretto rosso di Mao, e inneggiavano al
dittatore cinese, perchè non ne è mai scappato nessuno verso il
propagandato "paradiso"cinese ?
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La risposta è che la storia è piena dei "rivoluzionari della domenica",
e di coloro che si pasciano di una grassa ignoranza, ingurgitata e
fagocitata grazie agli indottrinatori di certa sinistra che, come Mao,
fanno solo ciò che gli conviene.
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