2017, l’anno del fallimento mondialista?
2017, l’anno del fallimento mondialista?
E' gennaio 2017 ed è finito anche un particolarissimo 2016. Quando
sarà studiato sui libri di storia, probabilmente sarà indicato come
l’anno che ha segnato l’inizio della fine del progetto mondialista che
voleva cancellare gli Stati nazionali ed imporre il dominio del potere
della finanza al globo intero.
Questo disegno – che sembrava avviato a trionfare rapidamente – ha
subìto una serie di colpi durissimi, decisivi, nel 2016: la Brexit e
l’elezione di Trump, ma anche la vittoria della Russia in Siria e la
sconfitta del progetto di consegnare l’intero Medio Oriente all’ISIS ed
ai suoi finanziatori occulti e meno occulti.
Quello che è successo nell’anno appena trascorso non è poca cosa.
L’addio dell’Inghilterra all’Unione Europea sbugiarda e rinnega
l’essenza stessa dell’Unione, nata per asservire l’Europa al progetto di
globalizzazione economica che aveva proprio a Londra, nella City, una
delle sue “capitali morali”. Né meno clamorosa è stata la vittoria
dell’isolazionista Trump nell’altra capitale morale del progetto
mondialista: nell’America di Wall Street e delle grandi banche d’affari,
di quel gigantesco apparato di sanguisughe che aveva puntato tutte le
sue carte sull’accoppiata Obama-Clinton e che oggi schiuma di rabbia.
E che dire del quadro strategico? Il disegno di provocare a sangue Putin
per avere il pretesto di muovere guerra alla Russia è fallito
miseramente, con grande scorno di George Soros e degli altri
“filantropi” che avevano investito miliardi per provocare “rivoluzioni
colorate” ed altre porcherie che facessero precipitare la situazione.
Putin è ancora in sella, saldamente in sella, ed anche Assad è ancora al
suo posto. Obama, invece, non c’è più, e il suo addìo rabbioso non è
che la confessione di un fallimento colossale, senza appello e senza
attenuanti.
I primi frutti di questi enormi sommovimenti cominciano già a vedersi, e
sono dolci frutti. In Inghilterra non c’è stata la tragedia prevista
dalle Cassandre europeiste nel caso di una vittoria del Brexit, ma – al
contrario – in questi pochi mesi l’economia britannica ha dato forti
segnali positivi. Ha dovuto ammetterlo proprio in questi giorni – col
capo cosparso di cenere – l’analista-capo della Banca d’Inghilterra
(privata, di area Rothschild) che in campagna elettorale s’era lasciato
andare a previsioni assai fosche per il caso di una vittoria degli
euroscettici. «Avevamo previsto – ha detto il banchiere – un netto
rallentamento dell’economia, che non c’è stato.» Si è consolato – leggo
su “Milano Finanza” – ricordando che il medesimo errore di valutazione
era stato compiuto «da tutti gli altri principali analisti». Appunto.
Idem per quanto riguarda Trump. Gli stessi analisti con la puzza sotto
il naso avevano giurato che la sua elezione avrebbe rappresentato un
disastro per l’economia americana, con chiusura di aziende,
licenziamenti in massa, e così via catastrofando. E, invece, è bastato
il solo annunzio di alcune sacrosante misure protezionistiche (prima
ancora dell’insediamento del nuovo Presidente) per determinare
l’improvviso rinsavimento di alcune grandi industrie americane, che
hanno precipitosamente sospeso le comode delocalizzazioni all’estero per
tornare a produrre in terra americana, creando ricchezza reale (e non
finanza virtuale) e dando posti di lavoro agli americani.
Di Putin e della Siria non occorre neanche parlare. L’intervento russo
ha segnato l’inizio dell’annientamento dell’ISIS, costringendo anche gli
americani a fare qualcosa di concreto. Con tanti saluti agli sceicchi
del petrolio e ai tanti fiancheggiatori dello jahidismo – beninteso
“moderati” – sostenuti dalla CIA.
Bilancio positivo per il 2016? Certamente. E in tale bilancio includo
anche il nostro modesto contributo: la vittoria a valanga del NO al
referendum sulle riforme Renzi-Boschi-J.P.Morgan.
Ma il cammino per liberarci dal cappio mondialista e globalista è ancora
lungo. Il 2017 sarà forse l’anno-chiave, con l’appuntamento decisivo
per la sopravvivenza dell’Unione Europea: le elezioni presidenziali che
si svolgeranno nella primavera prossima in Francia.
E quand’anche la “battaglia di Francia” dovesse essere vinta, non saremo
che all’inizio. In attesa di quella che immancabilmente dovrà essere la
battaglia finale: quella degli Stati – di tutti gli Stati del mondo –
per riappropriarsi del diritto di creare la propria moneta e per
togliere tale prerogativa alle banche “centrali”.
Sarà, come si diceva una volta, la lotta del sangue contro l’oro. Anche
contro l’oro nero.
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