L’attentato di via Rasella
L’attentato di via Rasella è emblematico perchè rivela la strategia dei partigiani comunisti
Si tratta infatti di un’operazione dal valore assolutamento nullo dal punto di vista militare, ma di grande impatto emotivo per la reazione che avrebbe provocato dopo la scontata rappresaglia tedesca.
Era inoltre un’operazione priva di pericoli e che quindi non avrebbe messo in difficoltà coloro che l’avessero eseguita.
Si tratta infatti di un’operazione dal valore assolutamento nullo dal punto di vista militare, ma di grande impatto emotivo per la reazione che avrebbe provocato dopo la scontata rappresaglia tedesca.
Era inoltre un’operazione priva di pericoli e che quindi non avrebbe messo in difficoltà coloro che l’avessero eseguita.
Sorto all’indomani della caduta del
regime fascista (25 luglio 1943), il governo Badoglio, aveva dichiarato
unilateralmente Roma “città aperta” solo trenta ore dopo il secondo
bombardamento che l’aveva sconvolta. L’attacco, eseguito da bombardieri
statunitensi il 13 agosto 1943, aveva causato danni forse ancora
maggiori del primo, che l’aveva colpita il 19 luglio: nei due
bombardamenti morirono oltre 2.000 civili innocenti e parecchie altre
migliaia rimasero feriti, senza casa e lavoro.
In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile.
In città venivano così a mancare servizi essenziali, mentre la fame si diffondeva e la capitale si faceva invivibile.
La città fu nuovamente bombardata
numerose volte, sino alla liberazione[citazione necessaria] il 4 giugno
1944. E’ in questo quadro, segnato dai bombardamenti alleati, dalle
retate contro i partigiani effettuate dai tedeschi e dalla deportazione
di circa 1.000 ebrei del ghetto di Roma, che si arriva alla fatidica
data del 23 marxo 1944, scelta perchè 25esimo anniversario della
fondazione dei Fasci Italiani di Combattimento.
I partigiani che eseguirono l’attacco
facevano parte dei Gruppi di Azione Patriottica (GAP) che dipendevano
dalla Giunta Militare, a sua volta dipendente dal Comitato di
Liberazione Nazionale (CLN), i cui responsabili erano: il socialista
Sandro Pertini, il comunista Giorgio Amendola e Riccardo Bauer del
Partito d’Azione.
L’ordine di eseguire l’attacco fu dato
dai responsabili della Giunta militare. Anni dopo sia Pertini che Bauer
dichiararono di non essere a conoscenza della preparazione
dell’imboscata e che l’ordine venne dato da Amendola senza che fossero
stati avvertiti. Amendola confermò tutto e rivendicò alla sua persona la
responsabilità di aver dato l’ordine operativo ai gappisti.
Per l’esecuzione dell’attacco furono
impiegati i GAP centrali che già dal periodo successivo all’8 settembre
1943 avevano compiuto numerose azioni di guerriglia urbana nella zona
del centro storico. Numerosi quindi furono i partigiani che avrebbero
partecipato all’azione, dei quali uno di essi, travestito da spazzino,
avrebbe dovuto innescare un ordigno nascosto all’interno di un
carrettino della nettezza urbana, mentre gli altri, ad esplosione
avvenuta, avrebbero dovuto attaccare con pistole e bombe a mano la
compagnia.
Il compito di far brillare l’esplosivo fu
affidato al partigiano Rosario Bentivegna (“Paolo”), studente in
medicina, il quale il 23 marzo si avviò travestito da spazzino dal
deposito gappista nei pressi del Colosseo verso via Rasella, con il
carretto contenente l’ordigno. Dopo essersi appostato ed aver atteso
circa due ore in più, rispetto alla consueta ora di transito della
compagnia nella via, alle 15.52 accese con il fornello di una pipa la
miccia, preparata per far avvenire l’esplosione dopo circa 50 secondi,
tempo necessario ai tedeschi per percorrere il tratto di strada compreso
tra un punto a valle usato per la segnalazione, ed il carretto,
posizionato in alto davanti a Palazzo Tittoni.
Poco dopo l’esplosione due squadre dei
GAP, una composta da sette uomini l’altra da sei, sotto il comando di
Franco Calamandrei detto “Cola” e Carlo Salinari detto “Spartaco”,
lanciarono bombe a mano e fecero fuoco sui sopravvissuti all’esplosione.
Nell’immediatezza dell’evento rimasero
uccisi 32 militari tedeschi e 110 rimasero feriti, oltre a 2 vittime
civili (Antonio Chiaretti ed il tredicenne Pietro Zuccheretti). Dei
feriti, uno morì poco dopo il ricovero, mentre era in corso la
preparazione della rappresaglia, che fu dunque calcolata in base a 33
vittime germaniche. Nei giorni seguenti sarebbero deceduti altri 9
militari feriti, portando così a 42 il totale dei caduti.
La decisione del comando nazista fu la
conta di 10 ostaggi fucilati per ogni tedesco ucciso. La fucilazione di
10 ostaggi per ogni tedesco ucciso fu ordinata personalmente da Adolf
Hitler, nonostante la convenzione dell’Aia del 1907 e la Convenzione di
Ginevra del 1929 nel contemplare il concetto di rappresaglia ne
limitassero fortemente l’ ampiezza secondo i criteri della
proporzionalità rispetto all’entità dell’offesa subita, nella selezione
degli ostaggi (non indiscriminata) e della salvaguardia delle
popolazioni civili.
L’ordine di esecuzione riguardò 320
persone, poiché inizialmente erano morti 32 soldati tedeschi. Durante la
notte successiva all’attacco di via Rasella morì un altro soldato
tedesco e Kappler, di sua iniziativa, decise di uccidere altre 10
persone. Erroneamente, causa la “fretta” di completare il
numero delle vittime e di eseguire la rappresaglia, furono aggiunte 5
persone in più nell’ elenco ed i tedeschi, per eliminare scomodi
testimoni, uccisero anche loro.
Nel dopoguerra, Herbert Kappler venne
processato e condannato all’ergastolo da un tribunale italiano e
rinchiuso in carcere. La condanna riguardò i 15 giustiziati non compresi
nell’ordine di rappresaglia datogli per vie gerarchiche. La
rappresaglia infatti doveva riguardare secondo l’accusa i soli 32
militari morti sul colpo e no quelli morti successivamente che portarono
a 33 i morti il giorno dopo e men che meno i successivi 9 che morirono
nei giorni successivi.
Le critiche che vengono mosse alla vicenda sono:
- Secondo i critici, e secondo alcuni militari tedeschi sopravvissuti, i 156 uomini della 11ª compagnia del battaglione Bozen coinvolti nell’attacco, comandati dal maggiore Helmut Dobbrick, non erano un reparto operativo ma solo riservisti altoatesini entrati nell’esercito tedesco per affinità etniche ed aggregati al Polizei Regiment della Wehrmacht, con compiti di semplice vigilanza urbana[8]. Altre testimonianze al contrario documentano la partecipazione del Bozen ad alcuni rastrellamenti.
- L’esplosione non uccise solo trentatre militari tedeschi, ma anche due civili italiani (di cui un bambino di 13 anni), ferendone anche altri quattro. Ai famigliari dei due civili morti nell’attentato non è mai stato riconosciuto alcun risarcimento dalla magistratura italiana, in quanto l’attacco è stato catalogato come legittimo atto di guerra.
- L’attentato fu perpetrato dai partigiani nonostante fosse noto che i tedeschi applicassero sommariamente la rappresaglia per ogni attacco subito, come in numerosi altri casi.
- La rappresaglia di 330 prigionieri si sarebbe potuta forse evitare (secondo quanto affermato dallo stesso generale Kappler che la ordinò), se gli attentatori si fossero consegnati alle autorità tedesche, come nel noto caso di Salvo_D’Acquisto.
Dall’accaduto si possono trarre alcune conclusioni:
- in sè e per sè la rappresaglia era assolutamente giustificata e legale (Convenzione dell’Aja e Tribunale di Norimberga). Quello che non tornava era il numero dei morti: 335 invece dei 320 (o 330 tenendo conto del soldato morto prima della rappresaglia stessa). Sui 15 (o 5) morti in più c’è chi sostiene si trattasse di soldato tedeschi che si erano rifiutati di sparare e che Kappler non avrebbe nominato per non infangare l’esercito tedesco.
- lo scopo tutt’altro che militare di tutta l’operazione fu raggiunto in pieno. L’eccidio delle Fosse Ardeatine è diventato un simbolo della ‘Lotta di Liberazione‘, dell’eroismo dei’ combattenti per la libertà‘ e un sicuro baluardo contro qualsiasi nostalgia.
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