I “cancer village”
Giovani uomini, giovani donne e bambini giacciono inermi sotto la scure del progresso e dell’industrializzazione.
I paesi in via di sviluppo, emulando i paesi sviluppati, sono diventati una fucina di morte e distruzione.
Le città più inquinate del mondo si trovano tutte, guarda caso, nel continente asiatico – soprattutto India, Cina e Corea.
L’unico interesse dei governanti è fare in modo che i loro paesi non 
vengano limitati nella sfrenata corsa alla supremazia del potere 
economico, mentre i paesi occcidentali giocano a fare – oggi – i guardiani del pianeta e dell’ecosistema mondiale…
Il governo cinese tace, come ha sempre taciuto sui laogai e sui 
rapimenti delle bambine, anche su questo triste aspetto dei “villaggi 
del cancro”.
(ariannaeditrice.it) – Li chiamano 
“cancer villages”, ovvero villaggi del cancro, e sarebbero, secondo 
alcune fonti, almeno 459 località sparse in tutte le province della 
Cina, ad eccezione di quella del Quinghai, estremo ovest del Paese e 
Tibet. Il termine “sarebbero” è quanto mai appropriato, poiché studi 
ufficiali non ce ne sono e gli unici dati disponibili sono raccolti da 
ONG, istituti di ricerca indipendenti e qualche media cinese: il 
governo, infatti, evita ostinatamente di esprimersi su qualsiasi 
argomento riguardante i lati negativi del prorompente sviluppo 
industriale, ovvero l’ipotesi che esista un legame tra inquinamento ed 
aumento dei casi di cancro.
Queste località sono di solito piccole 
comunità che, nell’ultimo decennio, per effetto della crescita 
industriale della Cina si sono trovate a convivere con fabbriche 
altamente inquinanti come stabilimenti farmaceutici, industrie per la 
produzione di fertilizzanti o di agenti chimici. Nessuna legge 
regolamenta se ed in che modo debbano essere trattati gli scarti di 
lavorazione ed i rifiuti industriali: pertanto, tutti gli stabilimenti, 
scaricano le proprie scorie direttamente nei fiumi. Le immediate 
conseguenze per gli abitanti dei villaggi adiacenti, abituati a vivere 
grazie alle risorse naturali del territorio, sono la perdita 
dell’approvvigionamento di acqua potabile (con ricadute dirette sulla 
salute degli animali da cortile e sulle coltivazioni) e la rapida 
diminuzione (o, in alcuni casi, totale sparizione) delle risorse 
ittiche. Gli effetti a lungo termine sono, però, ancora più spaventosi: 
sembra infatti che in questi villaggi i casi di cancro siano sopra la 
media, soprattutto nelle fasce di età di solito meno a rischio come 
giovani e bambini.
Un tipico esempio di “cancer village” 
può essere Yanglingang, un piccolo paese situato nella provincia di 
Anhiu (est della Cina): senza un impianto pubblico per la distribuzione 
dell’acqua, gli abitanti di Yanglingang si sono sempre riforniti al 
vicino fiume, ricco inoltre di pesce; finché, nei primi del 2000, il 
governo non vi costruì nella adiacenze una nuovissima zona industriale. 
Da quel momento, la polvere e la cenere provenienti dallo stabilimento 
cartario e da quello di fertilizzanti hanno iniziato a ricoprire i 
campi, le case, le barche, mentre le acque di scarico rilasciate nel 
fiume Yangtze segnavano le rocce sulla riva con una continua linea 
marrone; gli abitanti purificano l’acqua con polvere di allume (alum 
powder) per renderla potabile, ma anche se ben trattata il sapore non è 
per niente gradevole. Il villaggio di Yanglingang conta solo un 
centinaio di persone, e dal 2003 ci sono state ben 11 morti accertate 
per cancro; sono in aumento, inoltre, patologie respiratorie e sindromi 
rare tra i bambini: sembra che in ogni famiglia ci siano problemi di 
salute.
Di Yanglinlingang, più o meno grandi, in
 Cina ce ne sarebbero quindi diverse centinaia. Ma anche le metropoli 
hanno i loro problemi: a Pechino, per esempio, capitale dell’ex Celeste 
Impero, lo smog è diventato un problema talmente serio da causare la 
chiusura di uffici e scuole.  Nel corso del 2013, in corrispondenza di 
particolari condizioni metereologiche, sono infatti accaduti degli 
episodi in cui l’inquinamento atmosferico era talmente fitto da oscurare
 i raggi del sole; nell’aria è stata rilevata una concentrazione di 
polveri sottili nocive pm 2,5 pari a 602,5 microgrammi per metro cubo, 
mentre il limite di sicurezza indicato dall’Oms è di 25 microgrammi. Il 
Governo, dato anche il disagio creato alla viabilità, ha dovuto prendere
 delle immediate contromisure chiudendo scuole ed edifici pubblici, 
limitando la circolazione di automobili ecc. Problemi simili, ma 
maggiormente frequenti, li hanno anche Shangai, capitale finanziaria 
della Cina, e la città di Harbin, capoluogo nella provincia della 
Manciuria che conta oltre dieci milioni di abitanti. In quest’ultima 
località è capitato di raggiungere fino 1000 microgrammi di particelle 
PM2,5 in una sola giornata: a causa della fitta nebbia di smog sono 
stati cancellati oltre 250 voli
Ma, per quanto riguarda la messa in atto
 di misure preventive per il futuro, l’unico provvedimento del Governo è
 stato quello di innalzare la soglia di allarme per i pm 2.5 a 115 
microgrammi per metro cubo, contro i 75 di prima. Cercare di limitare il
 traffico con targhe alterne e restrizioni alla circolazione sono misure
 irrilevanti, in un Paese che copre gran parte del proprio fabbisogno 
energetico con il carbone (68,4%).
Fermo restando che il preciso 
collegamento tra sostanze inquinanti e sviluppo di forme tumorali è, 
ancora, scientificamente da dimostrare, secondo alcuni studi l’indice di
 mortalità per cancro, in Cina, è cresciuto dell’80% negli ultimi 30 
anni. Nelle grandi città il fattore che rende la salute più a rischio 
sembra essere l’inquinamento dell’aria, spesso irrespirabile; nelle zone
 periferiche, invece, è l’acqua il principale sospettato. Il problema 
riguarda ormai tutto il territorio cinese a partire dalle risorse 
idriche, con due terzi dei fiumi inquinati
Ammesso e non concesso che 
l’inquinamento sia davvero una causa che possa favorire la comparsa di 
tumori è invece fuori da ogni dubbio che l’ecosistema ne risenta, con 
conseguenze immediate, a medio ed a lungo termine: acqua non potabile, 
aria irrespirabile, scomparsa o ampia diminuzione di specie animali, 
compromissione dell’equilibrio bio-ecologico.. E’ giusto, quindi, 
 correre il rischio di sacrificare la salute della popolazione e 
dell’ambiente di uno Stato in nome dello sviluppo economico? E’ 
plausibile per noi, Stati del Primo Mondo, fare la morale sui danni 
causati dall’inquinamento ai Paesi in Via di Sviluppo, dopo che abbiamo 
adottato lo stesso atteggiamento per decenni?
Una fredda nebbia cala sulla città nei 
primi giorni di dicembre: di conseguenza gli abitanti alimentano 
maggiormente i sistemi di riscaldamento a carbone, la cui combustione, a
 sua volta, provoca un aumento dell’inquinamento atmosferico che per il 
fenomeno dell’inversione termica viene intrappolato a terra dalla massa 
di aria fredda soprastante. La nebbia è così spessa che la circolazione 
automobilistica diviene pressoché impossibile, lo smog entra negli 
edifici impedendo le rappresentazioni teatrali e cinematografiche: non 
si riesce a vedere il palco o lo schermo! L’autorità sanitaria registra,
 nella prima settimana dall’inizio del fenomeno, 4000 decessi superiori 
alla media dovuti a infezioni dell’apparato respiratorio, bronchite 
acuta e polmonite. Seguono altri 8000 morti nelle settimane successive. 
Non stiamo parlando di una metropoli cinese dei giorni nostri, come 
quelle menzionate poco sopra, ma del Grande Smog che colpì Londra tra il
 5 ed il 9 dicembre 1952.
Ovviamente questa è solo una delle tante
 catastrofi causate dall’inquinamento che hanno colpito il mondo 
occidentale; l’uomo ha da sempre modificato l’ambiente per i suoi scopi,
 persino gli antichi romani avvelenavano i fiumi estraendo metalli 
preziosi, ma è solo con l’industrializzazione moderna che l’impatto 
antropico sull’ecosistema diventa particolarmente esteso e rilevante, 
facendo comparire il problema dell’inquinamento su larga scala. Di 
contro, la consapevolezza di questo pericoloso effetto collaterale non 
crebbe con la stessa velocità dello sviluppo economico e industriale: 
nel XIX Secolo infatti, la relazione tra sfruttamento delle risorse, 
progresso umano e tecnologico e degrado ambientale non fu presagita 
nella sua gravità anche perché le principali critiche politiche verso il
 sistema capitalistico-tayloristico si incentravano prevalentemente 
sugli effetti sociali del sistema, piuttosto che su quelli ambientali. 
Questi ultimi furono percepiti in momenti definiti all’interno di un 
orizzonte sanitario minacciato, come quando gravi epidemie colpirono le 
popolazioni urbane facendo emergere, nel tempo, il concetto d’igiene 
pubblica.
La consapevolezza della vitale 
importanza nel caso della protezione delle risorse idriche fu 
ulteriormente lontana dal realizzarsi. Le cicliche epidemie veicolate 
dall’acqua, di colera in particolare, nel corso dell’800 testimoniano 
l’arretratezza igienica e culturale delle aree urbanizzate, di gran 
lunga le più colpite, oltre ad evidenziare chiaramente la limitata 
efficacia dei provvedimenti socio-igienici predisposti per sanare, o 
almeno ridurre, i contagi. La prevenzione dall’inquinamento microbico si
 limitò alla salvaguardia della salute pubblica in sé, in senso 
restrittivo, mentre non si presero provvedimenti contro l’inquinamento 
delle acque al di fuori dei centri abitati. Il nodo centrale 
dell’inquinamento industriale fu quindi regolato da leggi sanitarie: la 
raccolta delle acque doveva essere sistematica mentre quelle utilizzate 
nei cicli industriali e sature di sostanze inquinanti e tossiche non 
preoccupava se venivano scaricate nei fiumi o nel mare, purché a 
distanza dei grandi centri urbani. Non era ancora chiaro il legame che 
sussisteva fra  sfruttamento intensivo del territorio e delle risorse e 
l’inquinamento che si produceva nello stesso; in taluni casi ciò 
arrivava a dar luogo ad imponenti fenomeni di erosione o 
desertificazione e normalmente si confidava semplicemente nella capacità
 della natura di auto-rigenerarsi
Ai tempi si riteneva inoltre che i 
negativi effetti derivanti dallo sfruttamento territoriale potessero 
essere risolti grazie a ipotetiche e salvifiche soluzioni tecnologiche, 
senza necessitare un ripensamento tout court del modello di 
sviluppo scelto. Lo sviluppo delle industrie britannico, per esempio, 
produsse una notevole crescita di alcuni centri urbani in precedenza 
relativamente modesti (Liverpool, Manchester), aumentando così i 
problemi igienico-sanitari esistenti e creandone di nuovi. Questa 
dinamica spinse molti contemporanei ad interrogarsi sull’invivibilità 
ambientale e sociale delle città inglesi. Nei centri urbani crebbero 
disordinatamente quartieri nei posti più sfavorevoli: vicino alle 
industrie e alle ferrovie, lontano dalle zone verdi. Le fabbriche 
disturbavano le case con i fumi e con i rumori, inquinando i corsi 
d’acqua, e attirando un traffico veicolare che si sommava a quello 
residenziale. L’industrializzazione pervasiva ed intensiva fu comunque 
ritenuta un male accettabile ma necessario in quanto portava dei 
risultati immediati e decisamente positivi in termini di occupazione, 
 aumento del reddito complessivo, crescita dei consumi, aumento del 
tenore di vita della popolazione.
La grande ricchezza prodotta e la 
promessa del benessere diffuso frenarono l’azione politica di controllo 
nei confronti di processi chiaramente deleteri per l’ecosistema e le 
persone, finché essi non rappresentassero una minaccia immediata e 
diretta alla salute pubblica. Non esisteva, infatti, il riconoscimento e
 la definizione del rischio ambientale da parte della comunità 
scientifica e della classe politica al governo. Gli Stati Uniti furono i
 primi pensare a territori in termini di risorse naturali da proteggere 
dall’intervento umano con l’istituzione nel 1872 del parco nazionale 
dello Yellowstone.
Ma è solo a partire dalla seconda metà 
del XX secolo che complessivamente in Occidente inizia a farsi strada 
concretamente la consapevolezza delle conseguenze legate allo sviluppo 
industriale: salute dell’ambiente o, meglio, dell’habitat, e della 
popolazione umana sono strettamente legate. Le medicina, inoltre, ha a 
disposizione dati e tecnologie per individuare le cause di alcune 
patologie che si scopre essere collegate a fattori inquinanti (infezioni
 respiratorie, aumento delle allergie, malformazioni dei feti ecc.). Per
 la prima volta si mettono in atto misure preventive e di riparazione a 
livello nazionale ed internazionale: il Protocollo di Kyoto, per 
esempio, al di là della sua effettiva efficacia, è il segno che l’uomo è
 arrivato ad avere la coscienza di quanto i propri atteggiamenti possano
 avere effetto a livello globale.
Proprio il tentativo di imporre 
provvedimenti che limitino l’impatto dell’attività antropica 
sull’ambiente è visto dai paesi in via di sviluppo, ed in particolare 
dalla Cina, come l’intenzione, mascherata da motivi ecologisti, da parte
 dei Governi dei paesi occidentali di frenare la loro vertiginosa 
crescita. Anche se ciò fosse vero, avviene con giusta cognizione di 
causa: innanzitutto i Paesi Occidentali hanno tutto il diritto di 
difendere i propri interessi economici, ed in secondo luogo, come visto 
poc’anzi, la storia della consapevolezza sulle conseguenze 
dell’inquinamento sull’habitat umano è già stata scritta, proprio sulla 
pelle degli abitanti di quella parte di Mondo che ha visto nascere per 
la prima volta l’industrializzazione. Si è visto infatti come il 
processo di acquisizione di una volontà collettiva per la salvaguardia 
ambientale, derivato dalla presa di coscienza del collegamento esistente
 tra fattori di inquinamento e salute pubblica, non sia stato per nulla 
immediato.
Gli errori commessi nel corso della 
Storia dovrebbero costituire un monito per tutti i Paesi del Mondo, come
 nel caso delle catastrofi ambientali: il disastro ecologico dell’Isola 
di Pasqua, per esempio, causato dalla deforestazione praticata dai 
propri abitanti, è un modello tragico ma eccellente di cosa può accadere
 in un sistema ecologico chiuso. In questo caso viene da chiedersi come è
 possibile che gli umani dell’Isola, circondati dall’Oceano Pacifico e 
senza contatti esterni, non si siano accorti del danno che stavano 
arrecando (a loro stessi in primis), e di come siano arrivati ad 
abbattere l’ultimo albero senza pensare alle conseguenze di tutto ciò; 
ma per il sistema Terra vale la stessa identica cosa: non ci renderemo 
conto dell’irreparabilità dei danni fintanto che, ormai, non avremo 
superato il punto di equilibrio per il quale le risorse non saranno più 
in grado di rigenerarsi e consentire la vita di 8 miliardi di esseri 
umani. La Cina, come altri Paesi in Via di Sviluppo, avrebbe avuto tutti
 i mezzi e le conoscenze per improntare fin dall’inizio il proprio piano
 di crescita industriale in un modo più sostenibile, evitando di cadere 
negli stessi errori di quanti l’hanno preceduta 
nell’industrializzazione, ma hanno preferito una crescita più a basso 
costo e quindi rapida; per quanto grande e ricca di risorse, c’è da 
ricordare che l’immensa fa pur sempre parte di uno stesso sistema 
chiuso.
La semplice esistenza del dubbio che 
esistano villaggi e città del cancro, in Cina come altrove (anche in 
Italia, purtroppo, ne sappiamo qualcosa), dovrebbe quindi essere 
sufficiente per giustificare l’intervento internazionale per limitare e 
contenere le cause del rischio. Attendere anni ed anni per avere le 
prove scientifiche che attestino l’esatta corrispondenza tra sostanze 
inquinanti e sviluppo di tumori negli esseri umani è un inutile spreco 
di tempo, ma soprattutto di vite.

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