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Italia - Repubblica - Socializzazione |
Testamento spirituale di
Rutilio Sermonti
Abbiamo ricevuto, tramite e-mail, questo stupendo "testamento
spirituale" di Rutilio Sermonti che riportiamo integralmente perchè
Rutilio, dall'alto della sua saggezza, esperienza e dirittura
morale, ci consegna un "qualcosa" di veramente raro e prezioso: un
insegnamento e una dirittura di vita non facilmente percorribile in
questa ignobile Era Democratica. Sono parole che ci riempiono di
fierezza, ma anche di tristezza e forse ci suscitano un poco di
invidia per il fatto che Rutilio ebbe l'occasione storica, che noi
per ragioni anagrafiche non abbiamo avuto, di compiere il suo
giuramento davanti al Duce.
Politicamente possiamo a volte non condividere certe posizioni e trovarci magari in dissenso sul come operare politicamente in questa società, ma sappiamo anche riconoscere la buona fede e i veri uomini, portatori di quei valori e di un retaggio storico che ci accomuna. Per fare un esempio, recentemente leggemmo sul quotidiano "Rinascita" una affermazione di Rutilio con la quale, senza mezzi termini, dichiarava che oramai egli lui giudicava gli altri a seconda di come questi si ponevano rispetto alla fatidica data del 25 aprile. Ed in effetti considerare quella data come "liberazione" o come "occupazione" è un qualcosa di completamente diverso e determinante. Da parte nostra aggiungiamo che questo "spartiacque", pur indispensabile non è però, oggi come oggi, sufficiente per affrontare e confrontarsi nell'impervia e subdola strada della politica. Occorre infatti aggiungere un altro spartiacque, che stabilisca come devesi giudicare chi ha collaborato a qualsiasi titolo, dal 25 aprile 1945 in avanti, con gli occupanti americani e con le strutture del sistema atlantico, nostrane o straniere che siano, tradendo in tal modo, con tale cooperazione con chi ci ha colonizzato, gli interessi nazionali e gli stessi ideali del fascismo repubblicano della RSI. Maurizio Barozzi |
Testamento spirituale di Rutilio Sermonti
RSMC
Ascoltatemi, carissimi amici e compagni di fede. Questo non è un addio. L'addio, sarete voi a darmelo, quando io non potrò più farlo, dato che, fino all'ultimo respiro, intendo adempiere al giuramento che prestai il 28 ottobre 1939 allo Stadio dei Marmi, al Duce presente.
È un testamento e una consegna, e, come tale, va redatto presso alla conclusione della vita, ma ancora nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, come il destino ha voluto conservarmi tuttora.
Mi rivolgo a voi, che mi siete più vicini nei ranghi, ma vi faccio carico di serbare in cuore le mie parole e di divulgarle al massimo e con ogni possibile mezzo a tutti coloro che giudicate pronti a riceverle, il giorno in cui mi porrò in congedo illimitato.
Per tutta la vita, ho cercato di servire il nostro comune ideale. Come tutti, ho certo commesso errori ed ingenuità, ma posso orgogliosamente affermare, sfidando chiunque a contraddirmi, di non aver mai accettato il più insignificante compromesso con la laida baldracca cui si usa dare il nome di Libertà, nè con i suoi logorroici manutengoli. Ora che il fardello del legionario comincia a premere sulle mie dolenti spalle, e che il mio passo malfermo necessita dell'appoggio affettuoso dei giovani fedeli, credo quindi di potere, senza mancarvi di rispetto, rivolgermi a voi in tono quasi paterno.
La prima verità da intendere è questa: che il compito che ci siamo assunti non è da uomini, ma da eroi. Non è affermazione retorica, questa, ma rigorosamente realistica. E, se così numerosi tentativi di riunione delle nostre forze sono falliti, è stato perchè si è voluto affrontarli da uomini e non da eroi. E gli uomini, anche di buon livello, hanno una pletora di debolezze, di vanità, di fisime, di opportunismi, che solo gli eroi sanno gettarsi dietro le spalle.
Come tante altre parole, anche "eroe" ha bisogno di una definizione. Non intendo, con essa, riferirmi a un comportamento eccezionale dettato da un attimo di esaltazione, di suggestione e di sacro furore, che può portare fino a «gettare la vita oltre l'ostacolo». Intendo definire quel fatto esistenziale e permanente, detto «concezione eroica della vita», che accompagna il soggetto in tutte le sue azioni e pensieri, anche apparentemente più tranquilli. Eroe, è quindi chi riesce a spezzare i vincoli condizionanti che lo legano, ora ad ora, alla grigia materialità del quotidiano, per seguire ad ogni costo la suprema armonia del cosmo, il sentiero della super-vita e della partecipazione al Grande Spirito. L'eroe è quindi portato a fare il proprio dovere, senza bisogno di alcuna costrizione, ed ha nella propria coscienza un giudice ben più acuto e inesorabile che un pubblico impiegato seduto dietro a un bancone. Libero, non è chi non ha padrone, ma chi è padrone di se stesso, e quindi l'eroe è il solo tipo umano veramente libero.
Non è che l'eroe non si allacci anche lui le scarpe, non paghi il telefono, non incassi lo stipendio o non partecipi magari a una compravendita. Solo che, per lui, quelle sono incombenze necessarie ma accessorie, secondarie: non sono «la realtà della vita», come per l'uomo qualunque. Servono a campare, ma vivere per campare gli toglierebbe il respiro.
Per questo, il nostro primo imperativo dev'essere: «tutti eroi!».
Il mio testamento spirituale potrebbe finire qui, perchè tutto quel che ho fatto, detto e abbondantemente scritto in tanti anni, non è che la conseguenza di quell'impostazione.
Voglio però aggiungervi un paio di consigli, che ritengo possano essere utili per la vostra continuazione della lotta.
Il primo è di adottare un ordinamento (e una formazione) fondato sui doveri e non sui diritti.
Sul piano meramente logico, sembrerebbe la stessa cosa. Se Tizio ha un diritto, ci dev'essere un Caio che ha il corrispondente dovere verso di lui. Se quindi io dico: «Tizio ha diritto di avere X da Caio», è sinonimo del dire «Caio ha il dovere di dare X a Tizio». Che differenza c'è?
C'è, la differenza. E sta nel fatto che, mentre il proprio dovere si può FARE, il proprio diritto si può soltanto RECLAMARE. Ne consegue che, se tutti fanno il loro dovere, e tale è la maggior cura dello Stato, automaticamente anche tutti i diritti vengono soddisfatti, mentre, se si proclamano diritti a piene mani, e tutti li reclamano, si fanno solo cortei con cartelli e una gran confusione e intralcio al traffico (protetto da stuoli di vigili urbani), ma il popolo resta a bocca asciutta, eccettuati i sindacalisti.
La seconda esortazione ha carattere operativo. Un uomo solo, un Capo, può impugnare la barra delle massime decisioni, ma deve possedere qualità eccezionali, che ben raramente si riscontrano. In sua mancanza, un gruppo di tre, quattro, cinque persone accuratamente selezionate, possono svolgere la funzione decisionale con sufficiente prontezza e saggezza. Un organo più numeroso, può funzionare solo a patto che vi sia una rigorosa divisione di funzioni e relative competenze, tra cui quella di sintesi, svolta da pochissimi. Ma soprattutto, deve dominare in esso l'assoluta unità di intenti, al difuori di qualsiasi carattere agonistico (tipo maggioranza e opposizione). In mancanza di tali requisiti, l'organo numeroso è del tutto inutile, anzi gravemente dannoso, perchè vengono a dominare poteri "di fatto" fuori di ogni controllo. Vi dico questo, sia in vista degli organi dello Stato organico che intendiamo istaurare, sia per quanto riguarda agli organi interni di "nostre" formazioni. Per queste ultime, anzi, il pericolo delle vaste "collegialità" (vedasi il pessimo esempio del MSI-DN) è ancor più grave, perchè fattore della degenerazione demagogica e incapacitante delle compagini stesse. Lasciate quindi al belante gregge democratico la ridicola allucinazione di comandare tutti, e coltivate la nobile, virile e feconda virtù dell'obbedienza.
Nessuno nega che il temperamento ambizioso sia uno stimolo per l'azione, ma ognuno stia in guardia: al minimo accenno che esso tenda a prevaricare in lui sulla dedizione alla Causa, sappia mortificarlo con orrore. La vittoria nella «grande guerra santa» è quella.
Se potrò costatare l'accoglienza da parte vostra di queste mie esortazioni, saprò di non aver vissuto inutilmente.
Ed ora, non avendo più la forza di stare al remo, torno a darmi da fare al timone.
Enos, Lases, iuvate !
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